C’era una volta il carcere inteso come casa di vetro, un luogo ove era possibile “ guardare e vederci chiaro “, uno spazio in cui la società civile, poteva osservare ciò che in un penitenziario accadeva, ma soprattutto ciò che non accadeva.
In un paese come il nostro, dove ogni giorno il passo indietro è più veloce ed esteso di quello fatto in avanti, per arginare un fenomeno diffuso come l’illegalità, non basterà certamente la configurazione di un carcere costretto a vivere di se stesso.
Sembra un secolo quando dal carcere potevano uscire suoni di cultura del bello, di ricostruzione morale, di collaborazione tra dentro e fuori, nuovi orientamenti esistenziali, cambiamenti interiori e non lamentazioni.
Oggi crea imbarazzo persino discutere sulla possibilità di umanizzare la pena, per l’italiano medio è più sbrigativo e meno impegnativo risolvere la questione con il metodo della chiave buttata via, della battuta fuorviante che non c’è certezza della condanna figuriamoci della pena, insomma macerie dialettiche su cui spostare qua e là l’attenzione.
Forse non è sufficiente richiedere a gran voce inasprimenti delle pene, costruzione di nuovi complessi penitenziari, non convince più la formuletta: “nel paese delle bugie, la verità è una malattia”.
Perseguire con onestà e coerenza un vero interesse collettivo significa pensare al benessere delle persone, quelle innocenti, quelle spesso indifese e più deboli, quelle che sono state spinte, a volte disperatamente a esprimere una doverosa esigenza di giustizia.
Interesse collettivo è anche dare dignità alla pena, perché non si trasformi in una condizione contraria al senso di umanità, deprivata della possibilità di riabilitazione, di una speranza che non rimanga mera illusione.
Interesse collettivo non è qualcosa di opinabile, è un preciso salvacondotto alla solidarietà costruttiva, quella che non spende tutto di sé, limitandosi a spedire in galera chi sbaglia, ma anche si impegna affinché chi entra in prigione non abbia a uscire destrutturato al punto da non risultare più annoverabile tra le persone o gli esseri umani.
Un preciso interesse della collettività non sta solamente nell’utilità indiscutibile dell’azione penale, ma altrettanto bene sta nel visionare la detenzione che ne conseguirà, non è possibile essere intransigenti con il reato e disattenti sulla compromissione nelle condizioni di invivibilità all’interno di un istituto carcerario.
Non è materia secondaria investire energie e danari per giungere a una pena rispettosa della dignità delle persone, propensa a una architettura del fare che persegua parametri essenziali per considerare plausibile un nuovo orientamento sociale.
Quale carcere e quale interesse collettivo privilegiare: le risposte che sapremo fornire, risulteranno la conferma di una malattia inguaribile, oppure l’intuizione necessaria per tentare la cura più appropriata.
L’ampiezza del reato, l’intensità della condanna, non consentono oltre di trincerarsi dietro l’enigma insoluto di un carcere vessato e umiliato a una sorta di terra di nessuno, ma proprio attraverso questa autoipnosi collettiva, ripartire, investendo sulle risorse degli uomini, riformulando un percorso condiviso di nuove opportunità, riconciliazione e riscatto.
Autore: Vincenzo Andraous
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