Michele Santulli. Un’altra grande donna ci ha lasciato.

A distanza di un paio d’anni ci ha lasciato Caterina Valente, anche lei riconosciuta ed acclamata artista ciociara, questa grande donna, figlia della emigrazione.
Due tre anni addietro ci ha lasciato Gina Lollobrigida, figlia di Subiaco, che per mezzo secolo ha fatto godere il mondo intiero, ora una figlia di San Biagio Saracinisco, questo antico paesetto ai piedi delle Mainarde in Valcomino che oggi conta due-trecento anime…
In queste brevi linee dedicate a Caterina Valente richiamo alla memoria, a parte le antiche vicende medievali coi Saraceni razziatori arrivati fino a quei luoghi e che hanno dato il nome alla località, soprattutto la feroce esperienza durante la seconda guerra mondiale vicino al fronte di Cassino che ne causò la totale distruzione.
Rammento che alcuni anni addietro Caterina Valente è stata presentata per la prima volta nel libro “ORGOGLIO CIOCIARO/Ciociaria Pride” che caldamente raccomando.
La vera caratteristica sociale e folklorica della popolazione di San Biagio e delle sue frazioni sparse nel territorio erano il nomadismo e l’emigrazione non solo stagionali: li si incontravano nelle località vicine come braccianti e giornalieri o nei mercati e fiere della zona come venditori della fortuna col pappagallo nella gabbia o come cantastorie e cartomanti, ammaestratori di cani e perfino talvolta del povero orso marsicano e addirittura con la scimmietta e anche come esperti mestieranti: arrotini, ombrellai, ramai, piattai e vasai, cordai.
Altrove si incontravano i pifferari e zampognari pure di San Biagio che in occasione di certe celebrità religiose abbandonavano, a partire dalla Immacolata Concezione, le rispettive famiglie per almeno tre settimane, andando a suonare e a cantare la Nascita del Bambinello a Natale davanti alle edicole o alle case nelle grandi città, non solo Roma e Napoli, per guadagnare il loro gruzzolo: altri spostamenti in più occasioni durante l’anno.
La tradizione degli artisti girovaghi già verso la fine del 1700 la incontriamo all’estero specie in Francia, Inghilterra e Germania e chissà dove altro, i veri pionieri della emigrazione italiana, iniziata proprio dalla Valcomino: S.Biagio, Picinisco e sue frazioni, Cardito di Vallerotonda, Vallegrande di Villalatina, da Atina, da Cerasuolo di Filignano furono gli avamposti.
Allorché iniziò la grande emigrazione italiana a livello nazionale dopo l’Unità, la diaspora divenne continua fino al quasi spopolamento di questi luoghi ed in tale esodo dalla metà del 1800 gli artisti girovaghi continuarono la loro peregrinazione con la presenza della donna che ballava e suonava il tamburello; uno spettacolo consueto per le vie delle città europee e naturalmente non solo ciociari ma anche i posteggiatori e i mandolinisti napoletani e anche pur se un numero esiguo, gli arpisti di Viggiano di Potenza.
Da notare che i suonatori di zampogna e di piffero di San Biagio erano particolarmente conosciuti, ci fu perfino qualche importante artista, quale Henri Lehmann, che fu attratto a quei tempi a San Biagio grazie ad uno di questi artisti girovaghi, un Iaconelli, che aveva conosciuto a Parigi. E tra questa umanità, verso la fine del 1800 e gli inizi del 1900, a Parigi, ammaliante e sfavillante, che tutti accoglieva e tutti faceva valere, incontriamo anche questo ragazzo organettaro di San Biagio; Giuseppe Valente che al momento opportuno si unì con Maria, ballerina, cantante, esperta di strumenti musicali, spigliata ed espansiva e assieme vissero la loro esistenza sui palcoscenici delle strade e dei teatri e nel 1931 misero al mondo quel capolavoro di figlia, Caterina: la rete fornisce infinite informazioni su questa artista sprizzante gioia di vivere ed entusiasmo e comunicazione.
Da evidenziare la sua assoluta umanità ed umiltà, la non comune spontaneità e amore del pubblico, la grande versatilità e ricchezza espressiva: richiesta e apprezzata in tutto il pianeta, dove era di casa, anche perché la sua carriera l’aveva abituata al cosmopolitismo ed alla padronanza delle principali lingue europee.
A Parigi negli stessi anni delle esibizioni di Caterina, anni ’55-’65, un altro massimo artista teatrale e televisivo pure di origini ciociare e cioè quell’impagabile Coluche, una autentica reliquia della popolazione francofona, anche lui estroverso, aperto, amante della gente specie dei poveri e anche degli animali, mieteva successi e riconoscimenti: rinvio ai miei articoli su questo inimmaginabile personaggio, reale patrimonio della Francia e dei Francesi, più ancora di Caterina Valente, laddove in Italia è zero completo, senza parlare della Ciociaria…

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu

 

Mario Zaniboni. Coppa di Wurburg. Immortalato un atto di vomito.

Il romano Agostino Feoli aveva una tenuta a Campomorto presso Vulci, un’antica città etrusca, ora in provincia di Viterbo. Egli era amante degli oggetti antichi e del suo possesso e, pertanto, organizzò degli scavi, da effettuare nei suoi terreni, che furono eseguiti in due periodi successivi: i primi furono affrontati dal 1839 al 1841 e gli altri dal 1846 al 1847.
Il latifondista apparteneva ad una famiglia ricca, per cui, contrariamente a quanto facevano tanti altri proprietari di terreni della zona, che vendevano tutto quanto di interessante proveniva dagli scavi, dei suoi reperti fece una collezione personale veramente prestigiosa. Oggi, quella collezione fa parte del Martin Von Wagner Museum di Würzburg; però, il tutto è stato mantenuto con il suo vecchio nome di “Collezione Feoli”, in suo onore.
Fra i tantissimi oggetti trovati e facenti parte della collezione era pure una interessantissima coppa, che fu battezzata come “Coppa di Würzburg di Brygos” (Würzburger Brygosschale); è un kylix, cioè un contenitore attico, appartenente alle serie delle figure rosse su fondo nero, che serviva per bere vino, costruito in ceramica verso il 480 a.C.
La forma è come quella di una ciotola con piede e munita di due manici da utilizzare per bere usando entrambe le mani. La sua altezza è di 14 cm, mentre il diametro è di 32,2 cm.
L’autore fu il ceramista Brygos e il decoratore il ceramografo che è passato alla storia come il pittore di Brygos: resta sempre il dubbio se i due artisti siano stati la stessa persona. Non ci sono dubbi, invece, sulla paternità della coppa, giacché all’interno di uno dei suoi manici si è scoperta la scritta ΒΡΥΓΟΣ ΕΠΟΙΕΣΕΝ (Brygos fece questo); la firma fu trovata anche in altre quattro coppe.
John Breazely confermò che la coppa era stata veramente prodotta da lui e dipinta da colui che fu chiamato pittore di Brygos, aggiungendo che Brygos fu un ceramista di grande abilità artistica. Del resto, gli studiosi sono d’accordo ritenendo l’artista, allievo del maestro Onesimo, fra i migliori di quelli che produssero ceramica attica a figure rosse. Di suo si sono trovati tanti manufatti, di varie forme: kantharoi, lekythoi, skyphoi e rhyta; inoltre, non mancarono alcuni vasi decorati a fondo bianco, tutti, però, senza firma. La raccolta è costituita da non meno di 200 manufatti ritrovati, mentre resta la speranza di trovarne ancora in futuro.
Che fosse un vero maestro in quest’arte lo confermano le notizie in merito a diversi produttori di oggetti in ceramica che hanno abbracciato l’arte della ceramica seguendo le sue orme.
La scena dipinta nel tondo riporta la figura di un giovane, probabilmente alticcio dopo abbondanti libagioni durante un simposio, che si sostiene con un bastone da passeggio, nell’atto, poco simpatico, di vomitare abbondantemente, mentre il suo capo è sostenuto da una bionda hetaira, donna “tuttofare” durante i simposi, dai quali mogli e figlie erano escluse. Entrambi hanno ghirlande sul capo.
All’esterno è una processione di giovani poco vestiti: da una parte, si trova un suonatore di barbiton (strumento a corde simile alla lira) e dall’altra è un suonatore di aulòs (una specie di flauto, solitamente munito di due tubi).
Non si tratta di una rarità, giacché è uno degli oggetti maggiormente in circolazione in quel periodo, vale a dire dal VI al IV secolo a.C.
La coppa, che fu costruita con somma perizia, mostra al pubblico le caratteristiche che l’hanno resa famosa nel mondo, a testimoniare l’abilità e la capacità artistica dei nostri antichi progenitori dell’arcaica Etruria.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it

Michele Zazzi. Fortezza etrusca di Poggio Civitella a Montalcino (SI).

A circa 2 km a sud di Montalcino su Poggio Civitella (661 metri sul livello del mare) è stata ritrovata una fortezza etrusca di età ellenistica (della fine del IV secolo a.C.), che si era sovrapposta ad un villaggio di età arcaica (prima metà del VI secolo a.C.).
La fortificazione è stata portata alla luce a seguito di scavi effettuati dal 1993 dall’Università di Siena, dall’Associazione di Studi Etruschi ed Italici di Montalcino e dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità “G. Pasquali” di Firenze (negli anni 1950 – 1951 erano stati ritrovati nel sito reperti ceramici del periodo arcaico ed ellenistico).
La struttura si componeva di tre anelli difensivi: una muraglia circolare in pietra costruita sulla sommità del colle era circondata da due cinte fortificate ellittiche di fango, pietrisco e legname. Il livello più basso della struttura nella parte settentrionale si raccordava con l’anello intermedio.
La fortificazione posta più in alto aveva mura a doppio paramento, era spessa in media quattro metri e si sviluppava lungo un perimetro circolare di circa 40 metri di diametro. Era provvista di una porta sufficientemente larga per il passaggio dei carri (circa 2,5 metri). Al lato della porta vi era una larga rampa per accedere sugli spalti. La muraglia era provvista anche di una stretta porticina di emergenza (postierla) in posizione defilata, protetta da una specie di garitta.
Al centro del piazzale interno fu realizzato un edificio, composto da due corpi di fabbrica collegati ad elle e suddivisi in vari ambienti. Nel corpo meridionale un tramezzo separava un grande ambiente da un piccolo vano; alcuni elementi farebbero pensare all’esistenza di una scala di accesso ad un piano superiore. Il corpo di fabbrica settentrionale (l’ala dell’edificio) risultava ripartito in tre ambienti di uguali dimensioni.
Relativamente alla funzione dell’edificio, che aveva copertura in laterizi, è stato ipotizzato che i locali servissero per lo stoccaggio (i tre ambienti della parte settentrionale), come rimessa per i carri e per la stalla (il grande ambiente del corpo di fabbrica meridionale) e gli alloggi dei soldati (al primo piano).
Si ritiene che la fortezza, che rientrava nel territorio di Chiusi, facesse parte di un complesso sistema di fortificazioni disposte sulle alture di Montalcino.
La fortificazione fu abbandonata nei primi anni del III secolo a.C. e gli scavi non hanno evidenziato tracce di distruzione.

Sulla fortezza di Poggio Civitella cfr., tra l’altro:
Montalcino Musei di Montalcino. Raccolta Archeologica, Medievale, Moderna. Sezione Archeologica, Silvana editoriale, 2008, pagg. 20, 26 e ss.;
– Luigi Donati, Gli etruschi su Poggio Civitella, Archeologia Viva n. 68 marzo – aprile 1998, pagg. 64 – 69;
– Luca Cappuccini, Il Castellum di Poggio Civitella (Montalcino, Siena) in Aristonothos Scritti per il Mediterraneo antico Il ruolo degli oppida e la difesa del territorio in Etruria: casi di studio e prospettive di ricerca, Tangram edizioni Scientifiche, 2012, pagg. 299 e ss.

Di seguito la rappresentazione della fortezza tratta dal sito della Proloco di Montalcino e le immagini relative alle mura, alla porta principale, all’edificio interno ed alla postierla.

Autore: Michele Zazzi – etruscans59@gmail.com

GINOSA (Ta). La chiesa rupestre di Santa Barbara.

Lasciandosi Ginosa alle spalle, percorrendo una stradina in discesa, ci si lascia le ultime case indietro, il sentiero diventa campestre, e si scende verso il fondo dell’affascinante gravina. Proprio di fronte, ci si para davanti l’impressionante villaggio rupestre di Rivolta, dove circa settanta grotte sono disposte su cinque livelli sovrapposti.
Il tetto della fila di grotte sottostante ospita le cisterne, i cortili e gli orti delle grotte soprastanti.
I piani terrazzati sono divisi da muretti di pietre a secco e collegati da ripide stradine e scalinate.
Sono visibili le cave di tufo esterne alle grotte-abitazioni, utilizzate per ricavare i blocchi destinati a tamponare gli ingressi.
Uno scosceso tratturo sale verso l’isolata chiesa rupestre di Santa Barbara. Attraverso un vestibolo aperto si entra nell’aula, dotata di una piccola abside sul fondo.
Restano ormai scarse tracce degli affreschi (datati X-XII secolo) all’ingresso e sulla parete sinistra, ma affascina l’insieme dell’insediamento sacro e degli altri ambienti ad esso connessi. L’immagine di Santa Barbara è abbastanza ben conservata. Così come il fascino di un tempo antico, vissuto con ritmi lenti e arcaici, fra natura e fede.

Immagini di Gianluigi Vezoli.

Fonte: www.salentoacolory.it

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