Michele Zazzi. Le vie cave etrusche.

Le vie cave (o cavoni o tagliate) etrusche sono percorsi viari scavati nel tufo a cielo aperto, tra alte pareti, che tortuosamente collegano il fondovalle con i rilievi collinari della regione tosco – laziale.
Le tagliate si trovano nei territori dell’Etruria meridionale interna rupestre e nell’area falisca nell’ambito delle odierne province di Viterbo, Roma e Grosseto. Cavoni etruschi si possono ammirare ad esempio a Pitigliano, Sorano, Sovana, Poggio Buco, Tuscania, Barbarano Romano, Bomarzo, Castro, Cerveteri, Veio, Viterbo, etc …
Le tagliate possono avere lunghezza fino ad un chilometro, larghezza di 2/4 metri, altezza fino a 20 metri (occorre comunque considerare che il livello di calpestio odierno è significativamente più basso di quello originario per essersi formato con il trascorrere del tempo) e pendenza tra l’11 ed il 18 %. Di solito presentano andamento curvilineo e talvolta si collegano tra loro. Frequentemente le tagliate sono collegate con tombe o necropoli. Nel suolo delle vie cave si trovano talvolta fori circolari e solchi di carro.
Alcune tagliate risulterebbero essere state scavate nel VII – VI secolo a.C. (ad es. Cava Buia e Cava di Pian del Vescovo a Blera) altre nei secoli successivi.
La funzione delle tagliate è incerta e dibattuta.
Secondo alcuni studiosi sarebbero delle vere e proprie vie di comunicazione, scavate probabilmente per collegare altopiani e valli e per abbreviare i percorsi da un centro all’altro.
Per una diversa opinione avrebbero funzione strategico – difensiva.
Altri studiosi opinano per una funzione sacrale: si tratterebbe di percorsi scavati per penetrare nella terra, per avvicinarsi alla dea madre, al fine di venerarla. Questa teoria troverebbe conferma sui simboli sacri ed iscrizioni che sovente si trovano scolpiti dagli etruschi sulle pareti delle vie cave. All’inizio del Cavone (a Sovana) inoltre è stato ritrovato un pozzetto votivo con oggetti in bronzo e ceramica di natura sacrale.
Secondo una tesi ulteriore avrebbero carattere funerario come sembrerebbe attestato dalla circostanza che spesso le vie cave risultano realizzate nelle vicinanze di tombe e necropoli.
E’ stato infine ipotizzato che possa trattarsi di opere per il deflusso delle acque; spesso nelle loro vicinanze vi sono canalizzazioni per le acque.
Nelle pareti delle tagliate in qualche caso si trovano iscrizioni in etrusco (ma anche in falisco ed in latino).
Le poche iscrizioni etrusche sono costituite da formule onomastiche maschili – di regola bimembri (sulla parete occidentale della via cava della Cannara, presso Corchiano, si legge “Larth Velarnies”) ma anche con il solo gentilizio (“cleiina” si trova inciso su una tagliata della Via Clodia in località Pian Gagliardo a Grotta Porcina – Blera) -, probabilmente riferibili al responsabile della realizzazione della tagliata in veste istituzionale (titolare di una carica pubblica, magistrato) o ad un privato benefattore della collettività, magari per finalità propagandistiche. La firma potrebbe però costituire anche indicazione di proprietà della strada e/o dei terreni vicini.
L’iscrizione nella Via degli Inferi di Cerveteri del maru Larth Lapicane contiene l’esplicita indicazione della carica (maru) del nominativo ed è certamente riferibile al magistrato responsabile dei lavori pubblici effettuati nell’opera viaria (Enrico Benelli). Al di fuori di tale caso elementi che possono far propendere per il profilo istituzionale (esecuzione di lavori pubblici) possono essere costituiti ad es. dalle dimensioni rilevanti dei segni grafici o dal posizionamento della firma, inquadrata in un cartiglio, all’inizio della tagliata (Daniele F. Maras).
A prescindere dalla funzione delle tagliate, che potrebbe anche essere stata diversa da luogo a luogo, percorrere questi antichi sentieri è sicuramente un’esperienza di grande suggestione che ci consente di immergersi nella natura facendo un salto indietro nel tempo.

Sulle vie cave cfr, tra gli altri:
Le Vie cave in Etruria Meridionale Atti del Convegno, Castel Sant’Elia Corchiano, 7 – 8 ottobre 2022 a cura di Francesca Ceci, Elena Foddai, Stefano Francocci, Stephan Steigraber, Antiqua Res Edizioni, 2024;
Gli Etruschi e le Vie Cave, a cura di Carlo Rosati, Cesare Moroni Editore, 2008.

Immagini di vie cave di Pitigliano, Sorano, Sovana, Corchiano, Castro e Civita Castellana.

Autore:
Michele Zazzi – etruscans59@gmail.com

Emanuele Franz. Sulle tracce della Cornucopia: tra mito e realtà.

Uno degli approcci che occorre avere trattando simboli che abbracciano più civiltà e culture, come quello del corno, è quello di ritenere plausibile l’esistenza di un codice originario comune alle religioni e, soprattutto, che fra i miti antichi e l’avvento del cristianesimo non ci sia un conflitto ma una continuità.
Nelle precedenti ricerche questo si era riscontrato, in Colchide, una continuità fra l’antico mito del Vello d’oro e le prime comunità cristiane della chiesa ortodossa georgiana e, recentemente in Anatolia, al confine con la Siria, nelle devastate zone della guerra sulle tracce dell’originaria acqua della Genesi. L’acqua della vita potrebbe essere identificata con l’acqua che i locali venerano e usano per curare i malati alla periferia della città di Şanlıurfa (l’antica Edessa) in un pozzo miracoloso che si crede sia quello dove è stato seppellito per sette anni il biblico Giobbe.
Il mito non inventa ma parte sempre da un qualche cosa di autentico che affonda le sue radici nei popoli, così ci siamo recati in Grecia nei luoghi in cui si sono svolte le vicende mitologiche del Mito della Cornucopia, il leggendario corno dell’abbondanza che Eracle ottiene nella lotta con il Dio fluviale Acheloo…

Leggi l’articolo completo nell’allegato: Sulle tracce della Cornucopia Tra mito e realtà

Autore: Emanuele Franz – em_franz@yahoo.it

Giulio Mastrangelo. San Michele Arcangelo, antico patrono di Massafra.

San Michele Arcangelo, Archistratigos delle milizie celesti, custode del sacro bema, aveva un ruolo di rilievo nella liturgia e nella iconografia bizantine.
Anche presso i Longobardi l’Arcangelo ebbe subito un enorme seguito per alcune sue caratteristiche che condivideva con Godan/Wotan/Odino: l’essere guerriero, la capacità di dominare gli elementi e lo stretto legame col mondo dei defunti, essendo anch’egli psicopompo (ha inoltre come attributo la psicostasìa, ossia la facoltà di pesare le anime dei trapassati).
Nell’VIII secolo il culto per l’Arcangelo e la fama della sacra montagna del Gargano crescono e si espandono per l’intera Europa grazie al forte impulso da parte dei sovrani longobardi, primo fra tutti Grimoaldo, proclamatosi il protetto ed il difensore dell’Arcangelo, il quale così divenne il protettore ed il santo della nazione longobarda.

Massafra, San Michele arcangelo in San Simeone a Famosa

La devozione all’Arcangelo continuò e si intensificò col figlio Romualdo e la duchessa Teoderada. Anche in Terra d’Otranto ed in Terra di Bari il culto per l’Arcangelo Michele si diffuse a partire dall’VIII-IX secolo.
Innumerevoli sono le chiese, rupestri e sub divo, dedicate all’Arcangelo. Chiese in grotta sono a Matera, a Triglie presso Statte, a Calsalrotto presso Mottola, a Santeramo, a Gravina ed a Massafra.
Qui, pur se sancito formalmente nel XVIII sec., il culto per San Michele risale al pieno Medioevo quando il Castello Massafra ospitava gli uffici del Gastaldo di Taranto, ove viveva una Comunità di diritto, usi e costumi longobardi, tramandati sino al 1800. Ivi il culto per l’Arcangelo Michele è testimoniato da alcuni documenti, da toponimi e da diversi monumenti. Cominciamo col dire che l’Angelo per eccellenza è l’Arcangelo Michele sicchè, quando troviamo un pittaggio, una contrada o una chiesa rupestre chiamata ‘Sant’Angelo’, siamo certi che fossero dedicati all’Arcangelo Michele.
Circa i pittagi, un documento del 1 ottobre 1641 ci informa che «il pittaggio di Sant’Angelo confinava con una casa di proprietà del Monastero di S. Maria della Giustizia di Taranto, prope castrum di detta Terra di Massafra». Tale pittagio prendeva nome dalla chiesa di S. Angelo intra moenia, da non confondere con quella in contrada Torella. Detta chiesa già esistente nel Medioevo è citata nelle Rationes decimarum del 1324, tra le chiese e benefici (ecclesiae et beneficia) che pagavano la decima alla Camera Apostolica, ove era tassata per sette tarì. Si tratta ovviamente, al pari delle altre, di una chiesa privata (ecclesia dominicalis o titulus minor) in quanto all’epoca non c’era ancora un ente ecclesiastico assimilabile ad una parrocchia. In seguito, la ritroviamo tra le chiese unite, incorporate ed annesse al patrimonio della mensa capitolare con bolla del papa Gregorio XIII del 15 marzo 1582. Infine viene citata nelle Visite pastorali dei vescovi di Mottola, in quelle del 1606 (mons. Russo) e del 1649 (mons. Aquino). Rimane incerta la sua esatta ubicazione in quanto col tempo essa rimase abbandonata, non più officiata e quindi distrutta.

Massafra, particolare dell’affresco in Sant’Angelo a Torella

Ma all’Arcangelo Michele è dedicata anche una delle più estese contrade extraurbane di Massafra. La contrada Sant’Angelo (Sànt’Àngele), nota anche come Serra di Sant’Angelo, costeggia per un lungo tratto la Gravina Madonna della Scala ed è limitata ad ovest da quella di Colombato. Vi si rinvengono, oltre al complesso della chiesa rupestre di Sant’Angelo a Torella (di cui si dirà oltre), la Grotta delle Navi, quella del Miele, la Masseria S. Angelo costituita da due corpi separati. Oltre alla chiesa di S. Angelo all’interno dell’abitato, abbiamo altri due luoghi di culto dedicati a San Michele.
A nord della masseria Varcaturo esiste la grotta carsica di San Michele, citata quale cappella nel Catasto Onciario 1749 tra i beni feudali del marchese Michele Imperiali. Nel 1974 fu oggetto di indagine archeologica da parte dell’Archeogruppo di Massafra.
Sant’Angelo a Torella è un complesso monastico ipogeico con vari ambienti disposti sui lati di un vasto cortile centrale che ospitavano le celle, i servizi e, naturalmente, la chiesa. È datato al XI sec. ed è scavato con la tecnica delle case grotte in vicinanza del centro storico di Massafra. La chiesa presentava ingresso ed abside affiancati, separati da un pilastro prima che la costruzione di un muro, avvenuta nel XV secolo, li separasse. In una nicchia di fronte all’ingresso si conserva l’affresco dell’Arcangelo Michele, datato al XII secolo, una prova dell’antichità del culto per il nostro Patrono.
Non è l’unica rappresentazione dell’Arcangelo nel nostro territorio. Infatti nella chiesa rupestre di San Simeone in contrada Famosa si conserva un altro magnifico affresco dell’Arcangelo Michele a figura intera, in abiti militari di Archistratigos delle milizie celesti. Nel Medioevo l’Arcangelo assunse un complesso di attributi, alcune pagane, altre cristiane, riflesse nell’iconografia. La principale è di guardiano armato del sacro bema nelle chiese contro i demòni nonché di difensore dei deboli.
In occidente è rappresentato con la lancia, e talvolta anche con la spada in una mano, e con un globo nell’altra, come è raffigurato non solo a San Simeone a Famosa ed a S. Angelo a Torella a Massafra ma anche nella cripta di San Nicola e in quella di Santa Margherita a Mottola.
Il culto per San Michele era legato in antico anche alla pastorizia, alla transumanza ed alla locazione dei terreni pascolativi.
Non solo a Massafra, ma anche nell’intero territorio pugliese, due sono le feste del Santo: il 29 settembre e l’8 maggio.
Si usava dire che le locazioni per l’erbaggio duravano da un Sant’Angelo all’altro, nel senso che le greggi entravano nei pascoli il 29 settembre, festa di San Michele Arcangelo, e ne uscivano l’8 maggio, festa dell’apparizione dell’Arcangelo Michele sul Gargano.

Autore: Giulio Mastrangelo – giuliomastrangelo@libero.it

Mario Zaniboni. La lampada di Bagdad. Cella galvanica ante litteram?

Durante una serie di scavi tenutasi attorno al 1930 o poco più tardi nella località Kuyut Rabbou’a, non lontano da Baghdad, in Iraq, in una tomba furono trovati molti reperti, fra i quali faceva bella mostra di sé un oggetto, databile fra il III secolo a.C. e il III secolo d.C., che il definirlo strano forse è riducente.
Esso consiste in un contenitore di terracotta simile ad una giara, contenente un cilindro di rame, lungo circa 13 centimetri, ottenuto dall’arrotolamento di una sottile lamina, che conteneva al suo interno una barretta di ferro, mantenuta isolata dal cilindro mediante un tappo di asfalto.
Poiché il cilindro non era a tenuta stagna, un liquido costituito, forse, da succo d’uva o di limone oppure di aceto, poteva liberamente entrarvi ed entrare in contatto col ferro. Siccome le parti interne sono abbondantemente corrose, si ritiene che probabilmente si trattasse di un elettrolite.
Inizialmente, nessuno dimostrò un particolare interessamento a questo ritrovamento; solamente nel 1938, l’oggetto fu esaminato attentamente da Wilhelm König (tedesco, austriaco o australiano?) che lo notò nelle raccolte del Museo Nazionale Iracheno, ente per il quale lavorava; era un archeologo dilettante oppure si trattava di un tecnico, un ingegnere? Egli, comunque, giunse ad un’importante conclusione: secondo il suo parere, il ritrovato poteva essere una cella galvanica o voltaica, cioè una cella elettrochimica avente la capacità di trasformare l’energia chimica in elettrica; e, sempre secondo lui, era il mezzo per placcare in oro gli oggetti in argento. Tale ipotesi fu resa pubblica nel 1940 a Berlino, dove egli ritornò. Ma ciò che frena questa idea è l’esiguità della potenza dell’energia elettrica prodotta, che ne limitava l’uso.
Continuando a seguire il ragionamento di König, indicativamente si ha la datazione della sua costruzione: l’oggetto fu realizzato durante il governo dei Parti in Persia e, considerando che fu trovato in un sito archeologico che si riferisce al periodo fra il 250 a.C. e il 224 d.C., quello fornisce la sua età.
Il dottor St. John Simpson, appartenente al dipartimento del Museo Britannico del Vicino Oriente, ritiene invece che il reperto sia più recente, sia perché non si è identificato con troppa attenzione il sito di ritrovamento ed il suo contesto, sia perché lo stile della terracotta corrisponde a quello sasanide, che è il successivo periodo e che va dal 224 al 640 d.C.
Il ferro ed il rame costituiscono una coppia elettrochimica, tanto che, se entrano in contatto con un elettrolita, si evidenzia una differenza di potenziale che può essere misurato in volt. Ed è proprio stato il ritrovamento di oggetti in argento ricoperti da un velo d’oro, che ha indotto König a farlo giungere a quel ragionamento. Infatti, lui pubblicò un libretto in cui espresse la sua idea che il manufatto fosse una cella galvanica che serviva per placcare oggetti d’oro.
Nell’ultimo dopoguerra, Willard F.M. Gray, che si appassionò al problema, ne costruì una copia e fu in grado di dimostrare che, usando il succo d’uva, si produceva corrente elettrica; e non solo, perché con benzochinone (sostanza prodotta da alcuni coleotteri e artropodi) e aceto, il potenziale aumentava.
Alla fine del ‘900, Arne Eggebrecht, un egittologo, ne costruì una riproduzione utilizzando succo d’uva, ottenendo 0,5 volt di elettricità; poco, se si vuole, ma sufficiente per placcare una statuetta.
Ne fece una anche l’italiano Roberto Volterri, che usò limone; egli era del parere che mettendone insieme una certa serie si potesse ottenere un buon risultato.
Comunque, non tutti concordarono sulla possibilità di placcare d’oro gli oggetti d’argento, mentre altri formularono altre ipotesi, che non ebbero i riscontri attendibili al cento per cento.
E poi, a parte il fatto che certi elementi indispensabili mancavano, per cui il dubbio che fosse una cella galvanica resta integro, qualora fosse stata prodotta energia elettrica, a cosa sarebbe servita, se non esistevano dispositivi da far funzionare?
Pertanto, sembra che la conclusione più logica sia che la Batteria di Bagdad fosse utilizzata solamente per riti o altra funzione similare, anche perché essendoci una corrente elettrica, bassa finché si vuole, serviva tuttavia da far riconoscere ai fedeli la presenza di una divinità.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22blu@libero.it

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