Rieti, città natale di Antonio Gherardi (1638-1702), ha concluso con una grande mostra le celebrazioni del terzo centenario dalla morte di questo apprezzato e versatile interprete della cultura artistica di fine Seicento.
Antonio Tatoti, che assunse intorno ai venti anni il nome d’arte di Gherardi, raggiunse con esso una meritata fama negli ambienti dell’aristocrazia e della curia romana, frequentati fin dalla fine degli anni ’50.
L’artista reatino, pittore ed architetto di vaglia, nacque nella tarda estate del 1638 da una modesta famiglia di artigiani che aveva bottega presso la piazza principale della città.
Rimasto precocemente orfano di padre, il giovane, che aveva già avviato il suo apprendistato artistico, grazie alla protezione accordatagli dal Governatore di Rieti monsignor Bulgarino Bulgarini chiese ed ottenne di emanciparsi raggiungendo la capitale del Patrimonio di San Pietro.
Qui entrò in contatto con la bottega di Pierfrancesco Mola, da cui ereditò le ascendenze cortonesche maturando una squisita sensibilità per i cromatismi lievi e pastosi ad un tempo, tipici della pittura settentrionale, veneta e lombarda.
Alla morte del Mola, Antonio Gherardi perfezionò la sua formazione intraprendendo un lungo viaggio che lo portò a Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Genova.
Il ritorno a Roma segnò l’avvio di un’autonoma, brillante carriera, condotta al servizio di una committenza, tanto laica quanto ecclesiastica, estremamente raffinata, aggiornata ed attenta.
Fra i suoi estimatori, si segnalò Pietro Paolo Avila, discendente di un’aristocratica famiglia spagnola ormai in Italia da quasi due secoli.
Mecenate ed amante dell’arte, Pietro Paolo Avila meritò di essere annoverato, sia pur con la qualifica di dilettante, fra i membri dell’Accademia di San Luca. Aveva tanto a cuore la protezione e la frequentazione degli artisti da albergare negli alloggi del mezzanino del palazzo avito una vera e propria colonia di pittori di varia provenienza, che a Roma trovavano occasioni di formazione e di lavoro presso i numerosi cantieri aperti dalla Curia.
Così i registri degli Stati delle Anime della parrocchia dei SS. Simeone e Giuda consentono di ricostruire la mappa di una singolare coabitazione, protrattasi fino al 1679: a palazzo Avila alloggiano, oltre al reatino Gherardi, i napoletani Francesco Di Maria e Domenico Giganti, l’anconetano Lorenza Travaglini, i tedeschi Michele di Giovanni, Ambrogio Hermanni, Guglielmo Fenher, Bernardo Jurlach, i cui nomi vengono bizzarramente italianizzati dal sacerdote che compila i questionari resi obbligatori dai decreti post-tridentini.
L’illustre casato degli Avila aveva dato alla Chiesa di Roma durante la seconda metà del XVI secolo il cardinale Girolamo, Protonotario Apostolico.
In qualità di vicario di Santa Maria in Trastevere, questi vi aveva acquistato nel 1578 il beneficio di cappella, per farne la sepoltura di famiglia.
Un secolo più tardi, dunque, Pietro Paolo Avila ne affidò l’allestimento proprio ad Antonio Gherardi, che compì un autentico capolavoro curando con straordinaria, armoniosa originalità la struttura architettonica, l’impianto in stucco, la decorazione pittorica.
La cappella, intitolata a San Girolamo, viene integralmente pensata dall’artista come un monumento sepolcrale dal forte ed inequivocabile valore simbolico.
Le linee sobrie dell’architettura convergono nell’agile lanternino sorretto da quattro angeli in volo ascensionale, che sembrano quasi imprimere un moto rotatorio all’intera volta della cupola.
Sull’altare, è disposta una tela raffigurante il Santo titolare della cappella: il Dottore della Chiesa di origine dalmata, allievo del grammatico Donato, gettò nel IV secolo un saldo ponte fra il Cristianesimo orientale di Origene e di Gregorio Nazianzeno e l’Occidente, tanto da meritare da parte di papa Damaso l’incarico di sottoporre a revisione il testo della Vetus latina, l’ant