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Andrea ROMANAZZI. La fonte della giovinezza nella tradizione medievale.

Nella letteratura popolare medievale e rinascimentale un topos fortemente poetico e suggestivo è quello dell’ Acqua della Vita, la mistica fonte della giovinezza che ha il potere di resuscitare o di ringiovanire l’uomo. Il tema è molto antico, l’acqua è da sempre elemento cosmogonico per eccellenza, essa crea, guarisce, rigenera, purifica. Il sacro liquido ha da sempre colpito l’uomo antico a causa dalla sua comparazione con l’umidità del “sesso” femminile e dei liquidi naturali secreti dalla donna che avvolgono l’infante al momento della sua nascita. Dalla grotta, primo mistico santuario, alla sorgente prima e alla fontana, poi, il passo è davvero molto breve.
L’’uomo così da tempo immemorabile ha venerato questo elemento rendendolo sempre vario, complesso, multiforme, narrandolo, commentandolo e alcune volte poetizzandolo.


Il Topos dell’Acqua di vita Medievale


Il tema dell’acqua che ridona la salute acquista forte diffusione nel periodo medievale e fin da 1100 questo elemento costituisce un topos letterario dei bestiari e dei romanzi cortesi. L’area più interessata è quella franco provenzale, così una delle più antiche testimonianze è, ad esempio, quella di Filippo de Thaon che nel suo “Bestiaire”, datato 1119, ove l’autore parla di “une fointaine dunt l’ere est clere e saine” e stessa tradizione ritroviamo nella “Conquista di Gerusalemme” di Richard le Pelerin del 1200.
La tradizione romanzesca vuole queste sacre fonti posizionate nella misteriosa area mediorientale, lo scrittore Huon de Bordeaux ad esempio la pone nel giardino dell’Emiro Gandise, mentre nota è la leggenda del famoso regno di Prete Gianni ove vi è una fonte che “fit rajovenire la gent”.
La figura di questo mistico sovrano è davvero carica di mistero. Se infatti inizialmente si pensava a Prete Gianni come ad una figura fantastica tipica del pensiero medievale, ultimamente si è dimostrata la sua reale esistenza. Il nome deriverebbe infatti da un errore di traduzione nella lingua D’oc del veneziano “Preste Zane”. Ben lungi da esser solo una leggenda, il Prete Gianni fu un sovrano della Cina Settentrionale in un periodo tra  906 e il 1125. Sarebbe stato uno dei suoi eredi, detentore di questo titolo “sovrano-sacerdotale” a scrivere poi quelle famose lettere note in tutto il periodo Medievale con il nome di  “Lettera del Prete Gianni”. E’ in questi scambi epistolari tra questa enigmatica figura e i più importanti sovrani europei, come Manuele I imperatore di Bisanzio o Federico Barbarossa, che apparirà il topos della fonte della giovinezza.
Prete Gianni, infatti, descrivendo le meraviglie del suo palazzo, racconta di una fonte la cui acqua “…non ha l’eguale per fragranza e per sapore, e che non esce da quelle mura, ma corre da uno a un altro angolo dei palazzo, e scende sotterra, e correndo quivi in contraria direzione, ritorna là d’onde è nata, a quella guisa che torna il sole da Oriente ad Occidente. L’acqua ha il sapore di quella cosa che colui che la gusta può desiderare di mangiare o di bere, ed empie di tanta fragranza il palazzo come se ci si manipolassero tutte le sorta di balsami, di aromi e di unguenti…”
La leggenda dell’Acqua che dona la giovinezza non è poi estranea all’India ove il culto dell’acqua come mistico elemento è elemento fondante della stessa religione. 
Si moltiplicano così le leggende di uomini e mercanti che casualmente, durante il loro viaggi in Oriente, assetati, si abbeverano ad una fonte che poi scoprono esser proprio quella della giovinezza e così vivono per 300 anni, un’idea che poi non escluderà le nuove terre scoperte ad Occidente, le Americhe, ove successivamente sarà posta la mistica fonte di vita. La Fontana diventa dunque un simbolo, è il tema del mitico paradiso terrestre o della più pagana terra di cuccagna, idealizzate con le terre lontane ove trovatori e viaggiatori narravano delle più impensabili b

Andrea ROMANAZZI: Culti Agrari e Rituali di Fertilità. Analisi comparata di alcune tradizioni popolari friulane e del folklore lucano.

In molte tradizioni contadine italiane, seppur geograficamente lontane tra loro, troviamo alcuni temi comuni che sembrerebbero legare indissolubilmente il mondo agrario ad antiche tradizioni pagane. Le forme estatiche, i rituali di fertilità ed in particolare l’incontro con i morti sembrano essere filo conduttore di una cultura “subalterna” mai del tutto scomparsa. La continua associazione tra mondo contadino e il tema della morte sembrerebbe preludere una stretta unione tra questi due aspetti, basti pensare ai rituali legati al pianto funebre e al cordoglio nelle tradizioni agricole. Per conoscere il legame che c’è tra le tradizioni legate alla morte e i rituali di fertilità dei campi dobbiamo addentrarci tra i ricordi friulani e la magia lucana, due regioni distanti e profondamente diverse tra loro che però nascondono il seme comune del paganesimo silvano. Non è un caso che queste tradizioni si siano conservate in zone favorite dall’isolamento e accomunate dalla paura del negativo nella vita quotidiana e delle angustie della povertà agricola. Il sopravvivere di una cultura subalterna contadina ancora attaccata a queste credenze, attraverso ricordi, narrazioni, passaggi e sincretismi ha permesso il tramandare delle stesse fino al secolo scorso.

Una tipica tradizione dell’area friulana è quella dei Benandanti. Secondo i racconti contadini, i Benandanti sarebbero delle persone particolari, portatori di un culto di fertilità e difensori di campi e raccolti contro streghe e stregoni, in un’immagine stereotipata della morte che accomuna l’area nord Italiana con quella tedesca e balcanica legata alla figura di Frau Holle (Cossar, 1933). Queste persone sono caratterizzate dall’evento di essere nati con la “camicia”, in realtà un pezzo di placenta che da sempre, nella tradizione popolare era considerata come sede dell’anima. Forse è da questa credenza, che i Benandanti vengono considerati delle persone del tutto speciali, le uniche a poter guarire le persone dai malocchi e dalle fatture delle streghe, in grado di assicurare la fertilità dei campi. Del resto l’espressione popolare “nascere con la camicia”, ad indicare persone particolarmente fortunate, sembrerebbe proprio sottolineare questo atavico legame. E’ dunque la camiciola a rendere una persona “benandante”, non solo, ma è il suo stretto contatto a garantire la eccezionale condizione psichica del soggetto. Perdere la placenta significava non avere più alcun diritto di fascinazione e infatti molte sono le testimonianze in tal senso. “…portava quella mia camiciola al collo sempre, ma la persi et dipoi che la perdei non ci son più stato alli raduni…”( C. Ginzburg, 1996).

La tradizione vuole che in particolari periodi dell’anno questi magi si scontrerebbero contro streghe malefiche in una battaglia a colpi di rami di finocchio e di sorbo per assicurare, nel caso di loro vittoria, le fertilità dei campi.

“…Io sonno Benandante perché vò con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè nelle quattro tempora, di notte, invisibilmente con lo spirito et resta il corpo…noi con le mazza di finocchio et loro con le canne di sorgo…”( C. Ginzburg, 1996)

Ecco così trasparire lo stretto legame, di tipo sciamanico, tra il masciaro e la fertilità campestre. Questi combattimenti erano sicuramente il ricordo di antichi riti agrari, infatti la vittoria o la sconfitta nello scontro poteva assicurare fertilità ai campi o, in caso contrario, un periodo di ristrettezze. Si potrebbe così rivedere, in questo “scontro”, una riproposizione di rituali agrari ben più antichi e legati a quello che il Frazer definirebbe spirito arboreo, spesso identificato come l’aspetto maschile del culto primigenio della Grande Madre ( A. Romanazzi 2003)

All’inizio la divinità è vista e concepita come immanente, essa permea tutto ciò che circonda il selvaggio e dunque essa è anche dendromorfa. Nell’evoluzione del pensiero religioso-sciamanico primitivo la divinità, seppur nella su

Nicoletta TRAVAGLINI: L’ombra del lupo.

Nell’immaginario collettivo il lupo è stato sempre considerato come un animale, malvagio, crudele, feroce e, soprattutto assetato di sangue. Esso, nella fantasia popolare, come nell’iconografia classica, rappresentava l’ossessione dei viandanti e dei pastori che si spostavano lungo i tratturi, con i loro immensi greggi.

In vero, il lupo è un animale molto intelligente, timido e fiero, relegato in una nicchia a causa dell’assoluta mancanza di prede selvagge e costretto a vivere in spazi molto angusti dei parchi o delle riserve, nutrendosi, a volte, di rifiuti.

Il mito del lupo

Nelle società agro-pastorali, come il nostro Abruzzo, questa fiera, ha sempre goduto di un fama sinistra, ma presso i Lapponi e gli Esquimesi, esso è venerato come una divinità apportatrice di vita e di morte, del sole e delle oscurità e per il suo straordinario potere sulla luce.

Il suo mito si perde nella notte dei tempi ed è presente già in tradizioni pre-cristiane. Esso venne scelto come simbolo da molti popoli barbarici, che durante le loro invasioni, si identificarono con questo predatore, seminando morte e distruzione in suo nome; lo stesso Gengis Khan era il diretto discendente del grande Lupo Azzurro, leggendario antenato dei mongoli.

Nelle società cristiane il lupo è la raffigurazione del male, poiché esso è il più grande cacciatore e nemico dell’agnello, che rappresenta la bontà e la sottomissione. Il lupo diventa suo malgrado il simbolo della malvagità assoluta e nella letteratura gotica, in “Dracula” di Abram Stoker specialmente, esso è l’incarnazione di forze demoniache, prendendo una connotazione quasi umana.

Questa immagine deleteria e perniciosa si è stratificata nei secoli diventando una valida scusante per lo sterminio indistinto di queste povere bestie che nel 1982 sono diventate una specie protetta.

La tradizione del lupo come simbolo della malvagità, è nato, quindi, da un pericolo reale connesso al mondo agreste della pastorizia, nelle zone montane, pedemontane e nelle pianure ove il lupo aggrediva le greggi sterminandoli e negli inverni più rigidi si spingevano fino alle porte di molti paesini di montagna facendo temere per l’incolumità dei loro abitanti.

Di questo mondo agro-pastorale rimangono solo labili tracce nelle favole e nelle tradizioni popolari e, nonostante tutto il lupo, continua a terrorizzare i nostri sonni; forse perché il suo mito è stato ed è alimentato da una particolare iconografia cinematografica basata sul lato oscuro di questo predatore.

Il lupo di Pretoro

Nel nostro Abruzzo il mito del lupo ha radici molto profonde che emergono dalle molte leggende e tradizioni popolari come “Il Lupo di Pretoro”. Questa festa si celebra la prima domenica di Maggio in onore di San Domenico che secondo la tradizione ammansì un lupo. La leggenda vuole che tanti e tanti secoli fa una famiglia di boscaioli, che vivevano al limitare del bosco, fu aggredita da un lupo che rapì il loro piccolo. I genitori si disperarono e in special modo l’uomo che era assente durante incursione del predatore. Il boscaiolo rimproverò aspramente la moglie e mentre faceva ciò gli apparve San Domenico,che impietosito dalla situazione, opera il miracolo di ammansire il lupo, che riportò il bambino rapito alla famiglia.

Demoni

In contrapposizione a queste tradizioni del lupo buono esistono delle leggende che narrano di canidi molto feroci e di branchi di lupi famelici capeggiati da strani esseri, che la fantasia popolare identifica con demoni.

Durante la Prima Guerra Mondiale molti soldati abruzzesi, per andare nel molisano, dovevano attraversare il valico chiamato “ Colle del Soldato” dalle parti di Agnone. Questa zona pare che fosse infestata da lupi; una sera particolarmente rigida e nevosa alcuni soldati attraverso il valico, ma mentre lo oltrepassavano gli si parò davanti una oscura ed enorme figura che sbarrò loro il

Nicoletta TRAVAGLINI: Il Corvo.

Su una piccola collinetta tutta ricoperta da una fitta vegetazione, un soldato di nome Annichino, costruì un bellissimo castello per la sua numerosa famigliola. Questo maniero era molto ampio e al suo ingresso vi era un grande ponte levatoio che tutte le sere veniva chiuso, perché il signore del castello voleva essere al sicuro dai molti briganti che infestavano le campagne di Roccascalegna.

Passarono anni e anni ed Annichino, ormai vecchio, diede il castello e il borgo a suo figlio Alfonso che governò in maniera eccellente. Anche Alfonso morì di vecchiaia lasciando in eredità a suo figlio, Giovanni, il bellissimo castello dalle grandi mura merlate.

Un brutto giorno, però, Giovanni, che intanto aveva ereditato anche il titolo di barone da suo padre, sfidò a duello un altro nobile e questi venne ucciso dal perfido barone; il quale a sua volta fu preso dalle guardie del principe e fu arrestato.

Che triste giorno fu per gli abitanti di Roccascalegna che si trovarono senza un Signore che difendesse i loro diritti!!!

Passarono diversi giorni e ai giorni seguirono gli anni e a questi i secoli, finché un barone di Sulmona, Corvo de Corvis, comprò il castello, che nel frattempo era andato in rovina.

Il nobile arrivò con una scorta di paggi, cavalieri, soldati, aristocratici e giocolieri con i quali allietare le lunghe serate estive. Il corteo salì faticosamente la ripida stradina che portava all’entrata del castello, attraversò il ponte levatoio,che con sonori stridii e cigolii si abbassò, entrando, finalmente, nell’ampio cortile.

Le mura scostate e l’edera che si era abbarbicata, perfino sui merli della torre, davano l’idea dello stato di decadenza, poiché per tanti anni esso era stato quasi disabitato.
I solerti servi pulirono in tutta fretta le stanze del loro nuovo padrone, che con la sua enorme corporatura emergeva sulla massa dei suoi accompagnatori. Egli, infatti, era un attraente uomo di quarantacinque anni, stempiato, abbastanza alto, robusto, e vestiva sempre di rosso. Nessuno sapeva il suo vero nome, ma tutti lo chiamavano Corvo, forse perché possedeva un corvo nero come le tenebre con le zampette e lungo becco giallo, i suoi occhietti dorati scrutavano con interesse il nuovo ambiente; il barone e il corvo apparivano molto uniti, quasi complici, come se il rapace, fosse in grado di comunicare con il suo padrone.

Quel pomeriggio di fine giugno dopo essersi sistemato nella sua nuova dimora, il De Corvis iniziò a visitarla, dapprima vide le stalle dove vi erano dei magnifici esemplari di cavalli bianchi, e degli enormi neri destrieri con lunghe e folte criniera scure, come le notti senza luna; poi andò nelle cucine dove trovò tanti cuochi intenti a cucinare dei succulenti cinghiali che alcuni cacciatori avevano catturato nelle terre del barone vicino al fiume Sangro, delle grandi carpe pescate nel Rio Secco erano state messe allo spiedo, pronte per essere cucinate, delle pagnotte di pane si stavano dorando nel capiente forno di pietra bianca; quindi si fermò nella cappella privata del castello dove pregò davanti all’enorme quadro della Madonna del Rosario, alla fine salutò la guarnigione dei soldati che facevano la guardia sulla torretta di avvistamento, dalla quale si scopriva tutta la vallata del Rio Secco.

Era quasi sera quando egli fece ritorno nelle sue stanze, con il fedele corvo che svolazzava, contento per il castello, osservando con suoi profondi occhietti gli indaffarati servi che si preparavano per la serata di gala.

Quella notte una splendida luna purpurea faceva capolino sulle merlature della torre, sembrava quasi che i suoi bianchi ed eterei raggi accarezzassero dolcemente le mura del castello illuminate da una miriade di torce che rischiaravano la già limpida notte. Il barone, con il suo abito vermiglio, impreziosito da monili d’oro e pietre pregiate, che venivano da terre lontane, uscì dalle sue stanze seguito da un gru