Su una piccola collinetta tutta ricoperta da una fitta vegetazione, un soldato di nome Annichino, costruì un bellissimo castello per la sua numerosa famigliola. Questo maniero era molto ampio e al suo ingresso vi era un grande ponte levatoio che tutte le sere veniva chiuso, perché il signore del castello voleva essere al sicuro dai molti briganti che infestavano le campagne di Roccascalegna.
Passarono anni e anni ed Annichino, ormai vecchio, diede il castello e il borgo a suo figlio Alfonso che governò in maniera eccellente. Anche Alfonso morì di vecchiaia lasciando in eredità a suo figlio, Giovanni, il bellissimo castello dalle grandi mura merlate.
Un brutto giorno, però, Giovanni, che intanto aveva ereditato anche il titolo di barone da suo padre, sfidò a duello un altro nobile e questi venne ucciso dal perfido barone; il quale a sua volta fu preso dalle guardie del principe e fu arrestato.
Che triste giorno fu per gli abitanti di Roccascalegna che si trovarono senza un Signore che difendesse i loro diritti!!!
Passarono diversi giorni e ai giorni seguirono gli anni e a questi i secoli, finché un barone di Sulmona, Corvo de Corvis, comprò il castello, che nel frattempo era andato in rovina.
Il nobile arrivò con una scorta di paggi, cavalieri, soldati, aristocratici e giocolieri con i quali allietare le lunghe serate estive. Il corteo salì faticosamente la ripida stradina che portava all’entrata del castello, attraversò il ponte levatoio,che con sonori stridii e cigolii si abbassò, entrando, finalmente, nell’ampio cortile.
Le mura scostate e l’edera che si era abbarbicata, perfino sui merli della torre, davano l’idea dello stato di decadenza, poiché per tanti anni esso era stato quasi disabitato.
I solerti servi pulirono in tutta fretta le stanze del loro nuovo padrone, che con la sua enorme corporatura emergeva sulla massa dei suoi accompagnatori. Egli, infatti, era un attraente uomo di quarantacinque anni, stempiato, abbastanza alto, robusto, e vestiva sempre di rosso. Nessuno sapeva il suo vero nome, ma tutti lo chiamavano Corvo, forse perché possedeva un corvo nero come le tenebre con le zampette e lungo becco giallo, i suoi occhietti dorati scrutavano con interesse il nuovo ambiente; il barone e il corvo apparivano molto uniti, quasi complici, come se il rapace, fosse in grado di comunicare con il suo padrone.
Quel pomeriggio di fine giugno dopo essersi sistemato nella sua nuova dimora, il De Corvis iniziò a visitarla, dapprima vide le stalle dove vi erano dei magnifici esemplari di cavalli bianchi, e degli enormi neri destrieri con lunghe e folte criniera scure, come le notti senza luna; poi andò nelle cucine dove trovò tanti cuochi intenti a cucinare dei succulenti cinghiali che alcuni cacciatori avevano catturato nelle terre del barone vicino al fiume Sangro, delle grandi carpe pescate nel Rio Secco erano state messe allo spiedo, pronte per essere cucinate, delle pagnotte di pane si stavano dorando nel capiente forno di pietra bianca; quindi si fermò nella cappella privata del castello dove pregò davanti all’enorme quadro della Madonna del Rosario, alla fine salutò la guarnigione dei soldati che facevano la guardia sulla torretta di avvistamento, dalla quale si scopriva tutta la vallata del Rio Secco.
Era quasi sera quando egli fece ritorno nelle sue stanze, con il fedele corvo che svolazzava, contento per il castello, osservando con suoi profondi occhietti gli indaffarati servi che si preparavano per la serata di gala.
Quella notte una splendida luna purpurea faceva capolino sulle merlature della torre, sembrava quasi che i suoi bianchi ed eterei raggi accarezzassero dolcemente le mura del castello illuminate da una miriade di torce che rischiaravano la già limpida notte. Il barone, con il suo abito vermiglio, impreziosito da monili d’oro e pietre pregiate, che venivano da terre lontane, uscì dalle sue stanze seguito da un gru