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Laura TUSSI: Patologia e prevenzione. Le potenzialità del cambiamento, di trasformazione e di recupero.

La fisiologia dello sviluppo tra normalità e patologia. La valutazione come strategia di prevenzione.

Elaborato in occasione dell’incontro di presentazione de “IL MANUALE DELL’ADOLESCENZA”, autore Il Minotauro, F. Angeli, presso la CASA DELLA CULTURA, novembre 2004.

Sussiste una continuità tra normalità e patologia nell’ambito del disagio in adolescenza, laddove nell’ottica più psichiatrica, più tradizionale, ossia superata, la situazione consiste nel considerare i due ambiti tra normalità e patologia ben distinti, ben differenziati, con tendenziale patologizzazione del disturbo adolescenziale. Molte osservazioni, molti studi e lavori intrapresi con adolescenti e genitori, hanno condotto la ricerca psicologica a privilegiare un’idea di continuità, di una visione secondo cui i problemi si aggravano, si addensano e si amplificano, ma vanno proprio riferiti ad un percorso situato nella fisiologia dello sviluppo.

Questa è un’idea che porta anche alla visione di una prospettiva dell’adulto e dell’operatore psicologico che è portato a comprendere dentro questo tracciato relativo allo sviluppo, le problematiche anche gravi dell’adulto e dell’adolescente. Da questa analisi si percepisce il significato che le problematiche presentano nel contesto famigliare, ma più ampliamente nel contesto sociale, nel porre l’accento su quello che appunto avviene nel processo di interiorizzazione di informazioni, di comunicazioni a livello più superficiale, più interattivo, ma in modo più profondo, di identificazioni, di proiezioni, di meccanismi che hanno strettamente a che fare con l’inconscio e con il nostro sistema conscio. Tutti questi fenomeni e processi psichici stratificano lo sviluppo adolescenziale e possono presentarsi anche in termini di osservazione generale, nel momento stesso in cui sono compresi, ovviamente, in maniera clinica, quando il ragazzo si presenta con un problema in una stanza di consultazione o di terapia, ma prima ancora nella volontà della visualizzazione di un problema e di una difficoltà. Così risulta utile mettersi in contatto, anche nel senso della prevenzione con quelle che sono le possibilità di capire e comprendere profondamente le radici del problema, per cercare di prevenire gli sviluppi più gravi di una patologia o di un disturbo psichico.

Tutto questo risulta ben presente come filo rosso nell’esperienza dei centri psicologici operanti sul territorio, che tengono ben presente il punto di vista psicanalitico e tutte quelle conoscenze che sono in gioco dalla formazione dell’identità, alla costruzione dell’immagine corporea, alla dimensione fondamentale delle relazioni sentimentali e dell’integrazione del corpo sessuale. Gli aspetti più problematici e le questioni principali che i clinici si trovano ad affrontare nel momento stesso in cui sono chiamati in causa nella stanza dell’analista terapeuta, iniziano con una descrizione dettagliata dei disturbi della condotta alimentare, oppure con tentativi di suicidio, fino a episodi di antisocialità e tutte le problematiche connesse all’agire trasgressivo e violento dell’adolescente, in una linea di continuità che va dal bullismo ai fenomeni di emarginazione, dai limiti della normalità, fino ai casi più gravi e disastrosi. Per poter fare una prevenzione non solo del disturbo psichico, o in senso lato della malattia mentale in adolescenza, ma anche in età adulta, andrebbe condotto un intervento di prevenzione proprio in epoca adolescenziale, laddove si presentano maggiori potenzialità, per il soggetto, di cambiamento, di trasformazione, nella possibilità di recuperare la propria storia di vita nella sofferenza e, per certi aspetti, di contribuire a riscriverla, uscendo anche da situazioni traumatiche molto gravi e riuscendo a riparare dei fallimenti evolutivi che tenderebbero a fossilizzarsi, cristallizzarsi e cronicizarsi, diventando stabili.

Per condurre una prevenzione ben fatta in adolescenza e in preadolescenza o anche in epoc

Laura TUSSI: La valorizzazione dell’insegnante. Riflessioni su anni di precariato.

Nel contesto educativo occorre relazionarsi assiduamente con colleghi, con superiori, con ragazzi e con i loro genitori. Si è esposti al giudizio di tutti a 360 gradi con conseguenze spesso devastanti, sia a livello esistenziale che psicologico. Personalmente “forse” sono riuscita immune da sei pesanti anni di precariato perché mi sono sempre e costantemente posta il problema dell’educazione e della necessità di apprendimento, di crescita sociale, culturale e psicologica di ogni ragazzo.

Più volte nel corso della professione di insegnante mi sono trovata in situazioni disperate, in circostanze assurde che sembrano irrisolvibili anche da parte di tanta pedagogia scolastica e didattica.

Ve ne riporterò degli esempi:

La classe dimostra scarso interesse e patente abulia relazionale e cognitiva verso ogni proposta didattica innovativa e propositiva che scade inesorabilmente nel rifiuto e nell’avversione totali verso l’impegno di studio e di metodo. L’idea di impegnarsi con assiduità su un copioso numero di verifiche variegate nel contenuto e nelle modalità di svolgimento viene respinta per la scarsa volontà, per l’immotivato zelo nell’agire a favore di forme di gioco monotone, stupide e dettate dal bieco consumismo dei mezzi di comunicazione di massa che denota in modo evidente un basso tasso di valorialità personale pressochè incentrato sull’estetica, per le ragazze, e sul principio di forza, per i ragazzi.

La proposta di percorsi didattici di contenuto educativo valoriale veniva respinta in nome di emblemi e simulacri di personaggi ben più importanti da perseguire e da innalzare a idoli del momento, di uno spaccato di classe povero di idee, banale negli interessi dove un certo tipo di consumismo fondato su meccanismi mercificatori biechi fa presa per la futilità, la vacuità e l’inanità dei messaggi la cui fruizione non implica per niente un cospicuo investimento di energia intellettiva.

Tale disinteresse per pratiche metodologiche, didattiche, di contenuto, di riflessione ed il rifiuto verso un impegno intellettivo, collegiale basato sul confronto, il dialogo e l’interscambio costruttivo di opinioni ingenerano sempre individualismo, opportunismo e disinteresse verso l’altro, in tutte le accezioni di alterità, implicanti differenze, divergenze e diversità, per cui il ragazzo non attribuisce, secondo un’ottica di ottimismo esistenziale, senso e significato al mondo, alla realtà nella relazione con l’”altro” e con tutti gli “altri”.

In queste situazioni i genitori non sanno intervenire, ma si arrogano il diritto di sapere, di potere, di essere in grado di risolvere la situazioni con interventi incoerenti, impertinenti e soprattutto incompetenti, creando ulteriore confusione e difficoltà.

L’avvenimento di crisi, di rottura, di separazione e volontà di presa di distanza dalla personale professione (disagio dell’educatore) si è manifestato con la completa e assoluta incapacità di gestire una classe estremamente vivace, ineducata e alquanto disagiata.

Non è stato solo un momento o un evento di sconforto e perdita di fiducia nelle personali competenze e capacità, ma una catena di avvenimenti che hanno messo in discussione le parti del ruolo di docente.

Non credevo più nel valore e nell’importanza della trasmissione del sapere alle giovani generazioni, in quanto la mia esperienza è stata messa in discussione da atteggiamenti sconfessanti, distruttivi, lesivi, egocentrici e catalizzatori verso determinati atteggiamenti favorevoli nei confronti di elementi leader interni al gruppo classe.

La catena di eventi si è evoluta in senso negativo e nella mia decisione di scegliere un’altra scuola.

Le questioni chiave che si presentavano consistevano nella scarsa accettazione della sottoscritta e scaturivano dal confronto con l’insegnante precedente e la completa assenza del supporto dei colleghi, del consiglio di classe stesso e del dirigent

Laura TUSSI: L’educazione al difficile. Verso l’impegno e il senso di responsabilità.

Il bello non è l’unico contesto significativo per un’educazione all’impegno e alla responsabilità.

Da un punto di vista metodologico, il percorso più efficace è centrato sulla difficoltà che dovrà prevedere un impiego minuziosamente ponderato dell’aiuto lungo l’asse che va dalla totale autonomia alla cooperazione. Il ragazzo stimolato dalle potenzialità di divertimento in modalità più sofisticate e dal desiderio di mettersi alla prova, avrà occasione di imparare non solo a non arrendersi di fronte alle difficoltà, ma anche scoprire che adattando il suo intervento ai vincoli che la realtà presenta, il ragazzo potrà contribuire decisivamente alla modificazione di quella stessa realtà. Come l’educazione al bello anche l’educazione al difficile risulta sostanzialmente una strategica dinamica processuale di formazione della capacità intenzionale: è una modalità per offrire al ragazzo la potenzialità di autopercezione, quale attore di un ruolo, di un copione, di una parte di storia che gli spetta e che gli è dato vivere. Il percorso educativo e rieducativo deve anche costruire ambiti che consentano al ragazzo di problematizzare la sua nuova dislocazione nel mondo, rispetto agli altri.

Le esperienze dell’altro

Una transizione obbligatoria finalizzata al cambiamento dell’interpretazione del mondo da parte del ragazzo risulta il riconoscimento del retroscena essenzialmente intersoggettivo su ogni agito ed esperienza sul reale e sul sé. Collocare i vissuti nell’ambito di un palcoscenico intersoggettivo risulta funzionale anche a una consecutiva rideterminazione dell’identità personale. L’identità si costruisce, decostruisce e ricostruisce sempre in relazione e in situazione.

La nostra identità dipende indubbiamente da un vissuto, da una storia, da una sedimentazione di rapporti con gli altri. L’incontro con l’altro non è ovviamente un’esperienza nuova per il ragazzo difficile. L’esperienza rieducativa centrata sull’incontro con l’altro rappresenta un luogo estremamente delicato. L’educatore deve valutare l’esistenza di un modo già costruito e strutturato di riflessione sul sé per determinare delle esperienze dell’altro rapportate alla biografia del ragazzo ed alle sue esperienze di vissuti esistenziali.

L’esistenza grippale

La percezione di costituire parte di un mondo intersoggettivo determina una dinamica relazionale sia autonoma, sia dipendente. Tra i ragazzi si formano gruppi spontanei che non sempre assumono la configurazione di un contesto formativo rispondente allo scopo.

L’intervento dell’educatore consiste nel coordinare la formazione del gruppo dove sorge il timore che esso si configuri in base alle stesse dinamiche procedurali che hanno contribuito alla genesi di una determinata interpretazione dell’altro e del sé. Se l’educatore non può permettere la libera spontaneità dei meccanismi di aggregazione, non può costringere i ragazzi a svolgere attività per loro insignificanti e il suo intervento consiste anche nel permettere che i ragazzi propongano e concordino tra loro progetti e attività significative per tutti. L’attività prescelta nel mettere in funzione il dispositivo dinamico della vita di gruppo, si deve comunque trasformare in un mondo in comune, in un piccolo universo costruito e condiviso dall’essere e dal fare insieme. L’esistenza di relazioni interpersonali rappresenta un tessuto interconnesso di rapporti di dipendenza che, all’interno dell’attività di gruppo, si rivelano quali molteplici possibilità perché l’azione individuale risulti significativa e realizzabile. L’esperienza dell’”altro” come azione collettiva, pedagogicamente condotta, si trasforma in luogo per agire concretamente e per ripensare l’interrelazione tra autonomia e dipendenza (Bertolini 1990) che ricollega il soggetto al mondo sociale e alla produttività delle sceneggiature collettive. Agire con l’alterità non deve rivelarsi per il ragazzo un conformarsi a tutto quanto stabilito, dato e negoziato a

Laura TUSSI: Adattamento apprenditivo – La dimensione cognitiva nel processo percettivo.

Elaborato di ricerca su parte del saggio di R. Canestrari, Psicologia generale e dello Sviluppo, Bologna.

La percezione è un processo mediante cui traiamo informazioni sul mondo in cui viviamo. L’atto percettivo può essere primitivo e immediato (non intellettuale), oggettivo (legato a condizioni esterne al percipiente), globale e unitario. Esistono situazioni in cui le realtà fisiche (suoni, vibrazioni) non hanno il loro corrispondente percettivo in situazioni di assenza fenomenica di realtà fisiche senza percezione. Le nostre possibilità percettive non sono in grado di cogliere tutta la gamma di onde elettromagnetiche, o ultrasuoni oppure lo spettro visibile dai 400 ai 700 millimicron. Esistono situazioni in cui in assenza di realtà fisica avviene la percezione in situazioni di presenza fenomenica, per esempio il silenzio e il buio sono sensazioni che percepiamo diverse dalle realtà fisiche.

Come si ricostituisce a livello fenomenico l’unità dell’oggetto fisico?

Wertheimer mostra i principali fattori di campo percettivo: vicinanza, somiglianza, continuità di direzione, esperienza passata.

Come l’identità, la grandezza, la forma di un oggetto possono rimanere invariate anche quando la proiezione retinica dell’oggetto varia al variare dei rapporti spaziali?

La grandezza dell’immagine retinica è sempre uguale, varia solo la distanza tra occhio e oggetto.

Perché percepiamo il mondo tridimensionalmente quando sulla retina l’immagine è piatta?

Perché percepiamo gli indizi di profondità fisiologici (meccanismi oculari), psicologici (indizi pittorici) nella sovrapposizione di luci e ombre in prospettiva aerea o lineare.

La psicologia associazionistica sostiene che riusciamo a cogliere l’espressività dei comportamenti altrui tramite il confronto con il nostro comportamento quando ci troviamo nello stesso stato d’animo dell’altro (empatia). Ma se la percezione delle qualità espressive è vera, possiamo cogliere nel prossimo solo i comportamenti e i sentimenti da noi esperiti. La psicologia dice che la comprensione dell’espressione è un fatto percettivo primario perché basato sulla struttura-evento e non sull’apprendimento.

Esistono meccanismi che trasformano i passaggi fisici del tempo, in segnali sensoriali. L’uomo è capace di orientarsi temporalmente secondo percezione e prospettiva temporale. Questo è il vissuto psicologico della persona che può avere rappresentazioni del passato e del futuro, vivendo nel presente in cui le rappresentazioni temporali dirigono il suo comportamento.

Esistono fattori innati o appresi. La percezione è innata. Il bambino distingue colori, forme diverse, profondità, toni diversi per cui la pratica e l’esperienza dei vissuti influiscono la percezione.

L’apprendimento

Il meccanismo che permette all’individuo di adattarsi alle molteplici richieste dell’ambiente, presenta diverse tipologie.

Condizionamento classico stimolo-risposta

La nutrizione del neonato è una catena di azioni in cui non vi sono elementi appresi perché l’azione è attivata da uno stimolo di contatto. Dopo alcune settimane il comportamento del bambino non è più un riflesso istintivo in quanto egli apprende a succhiare e anche a nutrirsi. Accanto al meccanismo innato subentra quello derivato. Pavlov è il primo a studiare la genesi dei meccanismi derivati. Scopre che le ghiandole salivari dei cani entrano in funzione non solo per ingestione di cibo con stimolo incondizionato, ma per il suono di un campanello e l’accensione della luce come stimoli condizionati. Le connessioni tra stimolo e risposta sono riflessi condizionati. Le reazioni condizionate sono divise in acquisite, che si stabiliscono dopo l’addestramento e quelle naturali che si attuano in modo spontaneo. In assenza di stimoli le relative reazioni condizionate cessano.

Condizionamento operante

Esistono molteplici forme di adattamento all’