Laura TUSSI: L’educazione al difficile. Verso l’impegno e il senso di responsabilità.

Il bello non è l’unico contesto significativo per un’educazione all’impegno e alla responsabilità.

Da un punto di vista metodologico, il percorso più efficace è centrato sulla difficoltà che dovrà prevedere un impiego minuziosamente ponderato dell’aiuto lungo l’asse che va dalla totale autonomia alla cooperazione. Il ragazzo stimolato dalle potenzialità di divertimento in modalità più sofisticate e dal desiderio di mettersi alla prova, avrà occasione di imparare non solo a non arrendersi di fronte alle difficoltà, ma anche scoprire che adattando il suo intervento ai vincoli che la realtà presenta, il ragazzo potrà contribuire decisivamente alla modificazione di quella stessa realtà. Come l’educazione al bello anche l’educazione al difficile risulta sostanzialmente una strategica dinamica processuale di formazione della capacità intenzionale: è una modalità per offrire al ragazzo la potenzialità di autopercezione, quale attore di un ruolo, di un copione, di una parte di storia che gli spetta e che gli è dato vivere. Il percorso educativo e rieducativo deve anche costruire ambiti che consentano al ragazzo di problematizzare la sua nuova dislocazione nel mondo, rispetto agli altri.

Le esperienze dell’altro

Una transizione obbligatoria finalizzata al cambiamento dell’interpretazione del mondo da parte del ragazzo risulta il riconoscimento del retroscena essenzialmente intersoggettivo su ogni agito ed esperienza sul reale e sul sé. Collocare i vissuti nell’ambito di un palcoscenico intersoggettivo risulta funzionale anche a una consecutiva rideterminazione dell’identità personale. L’identità si costruisce, decostruisce e ricostruisce sempre in relazione e in situazione.

La nostra identità dipende indubbiamente da un vissuto, da una storia, da una sedimentazione di rapporti con gli altri. L’incontro con l’altro non è ovviamente un’esperienza nuova per il ragazzo difficile. L’esperienza rieducativa centrata sull’incontro con l’altro rappresenta un luogo estremamente delicato. L’educatore deve valutare l’esistenza di un modo già costruito e strutturato di riflessione sul sé per determinare delle esperienze dell’altro rapportate alla biografia del ragazzo ed alle sue esperienze di vissuti esistenziali.

L’esistenza grippale

La percezione di costituire parte di un mondo intersoggettivo determina una dinamica relazionale sia autonoma, sia dipendente. Tra i ragazzi si formano gruppi spontanei che non sempre assumono la configurazione di un contesto formativo rispondente allo scopo.

L’intervento dell’educatore consiste nel coordinare la formazione del gruppo dove sorge il timore che esso si configuri in base alle stesse dinamiche procedurali che hanno contribuito alla genesi di una determinata interpretazione dell’altro e del sé. Se l’educatore non può permettere la libera spontaneità dei meccanismi di aggregazione, non può costringere i ragazzi a svolgere attività per loro insignificanti e il suo intervento consiste anche nel permettere che i ragazzi propongano e concordino tra loro progetti e attività significative per tutti. L’attività prescelta nel mettere in funzione il dispositivo dinamico della vita di gruppo, si deve comunque trasformare in un mondo in comune, in un piccolo universo costruito e condiviso dall’essere e dal fare insieme. L’esistenza di relazioni interpersonali rappresenta un tessuto interconnesso di rapporti di dipendenza che, all’interno dell’attività di gruppo, si rivelano quali molteplici possibilità perché l’azione individuale risulti significativa e realizzabile. L’esperienza dell’”altro” come azione collettiva, pedagogicamente condotta, si trasforma in luogo per agire concretamente e per ripensare l’interrelazione tra autonomia e dipendenza (Bertolini 1990) che ricollega il soggetto al mondo sociale e alla produttività delle sceneggiature collettive. Agire con l’alterità non deve rivelarsi per il ragazzo un conformarsi a tutto quanto stabilito, dato e negoziato a