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EGITTO – Le lettere di Tell el – Amarna

La storia.
Tell el – Amarna è il nome moderno della località in cui Akhenaton, “Gradito ad Aton” (prima Amenhotep IV, decimo faraone della XVIII dinastia; 1352 – 1338 a.C.), nel quarto anno del suo regno fece costruire la sua capitale, Akhet – Aton, “Orizzonte di Aton”, situata tra Tebe e Menfi, sulla riva orientale del Nilo, circondata da montagne, su un luogo vergine e delimitato da una serie di stele, recanti iscrizioni a carattere giuridico e celebrativo, che segnavano il confine ed indicavano la volontà del faraone di non espandere ulteriormente la capitale a danno degli insediamenti vicini. Per venticinque anni fu la capitale dell’impero Egizio fondata con l’intento di farne una seconda Tebe e di avere, quindi, gli stessi monumenti con gli stessi nomi. Lo scopo della nuova capitale era di ospitare tutto ciò che poteva servire come residenza del faraone e della sua corte e come centro direzionale dello stato.

Successivamente, sul piano internazionale, la situazione politica appariva di grande stabilità e sicurezza grazie ad un lungo periodo di pace dopo le campagne militari condotte da Thutmosi III e poi da Amenhotep II, che portarono ad un consolidamento della posizione egiziana in Nubia. In politica interna, invece, la situazione era decisamente diversa. L’instabilità era dovuta al fatto che la dinastia reggente stava progressivamente perdendo di importanza sul piano del potere politico a tutto vantaggio del clero di Ammone che aveva saputo appoggiare l’ascesa dei Thutmosidi. Da qui la forte reazione che incominciò a manifestarsi con il regno di Amenhotep III, che si espresse anche attraverso un’imponente ed appariscente iconografia regale che voleva sottolineare la volontà di riaffermare, anche visibilmente, la distanza tra il faraone ed i comuni cittadini, tra i quali anche i potenti esponenti del clero di Ammone.

Prima della grande riforma, Amenhotep IV aveva intrapreso un programma di costruzioni templari tradizionali facendosi rappresentare offerente davanti ad Ammone. Ma già nella costruzione del tempio di Karnak in onore di Aton si percepisce la volontà di rinnovamento ed un inizio di decadenza dei valori tradizionali.

La crisi culminerà con il mutamento del nome regale, in cui la titolatura tradizionale (“Toro potente dalle alte piume”, “Grande regalità in Karnak”, “Che innalza le Corone nell’Heliopolis del Sud”) verrà sostituita con nuovi titoli che vogliono mettere in evidenza tutto il dogma atoniano (“Toro potente amato da Aton”, “Grande regalità in Akhetaton”, “Che innalza il nome di Aton”), e con il cambiamento della capitale. Tutto ciò segnerà l’inizio della riforma religiosa che vedrà al centro del pantheon egizio un unico dio al di sopra di tutti gli altri, Aton, il “disco solare”, con lo scopo di eliminare progressivamente il culto di Ammone e dare vita ad un nuovo sistema di arti figurative e di architettura che vogliono esplicitamente sottolineare la rottura con il passato. L’intenzione era di recuperare quelle che erano le prerogative “divine” e politiche della dinastia regnante che i sacerdoti di Ammone avevano compromesso con Thutmosi III e ristabilire un rapporto esclusivo tra il sovrano e il dio. Le riforme furono molto veloci e la conoscenza del nuovo dio fu difficile se non si apparteneva all’ambiente reale. Inoltre bisogna considerare che la base su cui poggiava la religione era quella degli strati più umili della popolazione, estranea a queste innovazioni dal momento che i sacerdoti non uscivano dai templi e dai palazzi, quindi, nonostante i divieti, le preghiere si rivolgevano ancora ad Ammone. Più che in campo amministrativo, la riforma si fece sentire soprattutto in quello artistico ed economico. Akhenaton fece chiudere alcuni templi o ne limitò l’attività e trasferì alla corona i beni clericali. La prima conseguenza fu l’incremento della centralizzazione amministrativa e del suo braccio armato, cioè l’esercito e l’azione dell’amministrazione si complicò a

PANTELLERIA: Il tramonto della marineria della Grande Cossyra

Dei fasti di quel che fu, nel Mediterraneo antico, la splendida marineria da guerra di Pantelleria, o più esattamente di Cossyra (dal nome dato all’isola nel momento del suo massimo fulgore), un pallido riflesso resta nell’attuale stemma araldico del Comune: una nave da guerra di tipo punico. Il medesimo simbolismo è riportato anche nel gonfalone municipale.

Uno storico del passato quale l’Arpagaus, citato più volte dallo studioso locale del primo Novecento, Brignone Boccanera, ci tramanda notizie di una potente flotta con centinaia di navi. Al di là di queste indubbie esagerazioni, una prova dell’esistenza di quel formidabile strumento marinaro, ci viene dalle arcaiche iscrizioni di un “Triumphus navalis” da parte di due consoli romani. I due consoli, comandanti in capo dell’armata navale romana, sono Servio Fulvio Nobiliore e Marco Emilio Paolo, i quali celebrano, ognuno per proprio conto e quindi in giorni separati, 20 e 21 gennaio dell’anno 254 avanti Cristo, la vittoria riportata l’anno precedente, il 255, contro una flotta collegata cossyro-cartaginese.

Ambedue le iscrizioni (V. Zonara VIII, 14) recitano “De Cossurensibus et Poeneis – navalem egit”, la cui libera traduzione è “Riportò una vittoria navale sui Cossyresi e sui Cartaginesi”. Conoscendo l’usuale ed affidabile pignoleria con cui i Romani elencano, nei trionfi, i nomi dei popoli da loro vinti, è facile dedurre che le navi cossyresi, e quindi con equipaggi isolani, devono essere state in numero cospicuo nella flotta sconfitta.

Del come si sia giunti a questa battaglia navale, è presto detto. Siamo al tempo della prima guerra punica, nella primavera del 255 avanti cristo, dopo che 15.000 legionari romani, al comando del console Attilio Regolo, vengono fatti a pezzi dall’esercito cartaginese nella piana presso l’odierna Tunisi. Quel che resta del corpo di spedizione romano si rifugia nella città fortificata di Aspida, detta dai Latini Clupea ed attualmente Kelibia. I Cartaginesi pongono quindi la città sotto stretto assedio.

Come sempre, Roma non abbandona i suoi, malgrado l’umiliante sconfitta. Si dà pertanto ordine alla flotta, forte di ben 350 legni, di far vela immediatamente verso l’Africa. La guidano appunto i consoli Servio Fulvio Nobiliore e Marco Emilio Paolo.

Appena a conoscenza della notizia, i Punici allertano la loro flotta. Quest’ultima però risulta ancora falcidiata dalla tremenda batosta, subita l’estate precedente (256 a. C.), sempre ad opera dei Romani nei pressi di Capo Ecnomo in Sicilia. E’ giocoforza cercare l’aiuto della piccola, ma potente isola di Pantelleria, posta a solo 78 miglia marine dalla città di Cartagine. E’ ipotizzabile, per quel tempo, una flotta cossyrese di circa 50 navi da guerra, dato quest’ultimo congruente con il numero di combattenti (comprensivo anche dei marinai degli equipaggi) tramandatoci dall’Arpagaus.

Alla fine una flotta collegata di Cossyresi e Cartaginesi, forte di 200 unità navali, incrocia, per giorni, nel Canale di Pantelleria le acque antistanti le coste africane. Il contatto tra le due flotte nemiche avviene quasi certamente nel mese di giugno del 255. Quella romana, dopo aver costeggiato il litorale siculo, scende puntando direttamente su Aspida (Clupea); all’altezza del promontorio Ermeo, che si protende nel mare in direzione della Sicilia e delimita l’estremità orientale della baia di Cartagine (all’altezza dunque dell’attuale Capo Bon), incontra l’armata navale cartaginese, che sbarra il passaggio.

Sono di fronte non meno di 110.000 romani con 350 navi e 60.000 cossyro-cartaginesi con 200 navi. Lo scontro violentissimo è però di breve durata. Il rapporto di forze è troppo sbilanciato a sfavore dei Cartaginesi in un rapporto di quasi uno a due. In breve il mare nereggia di relitti di navi puniche. La vittoria arride ai Romani; per Cartagine è un’ulteriore dura sconfitta, ma per la sua alleata, la fedele Cossyra, è la fine di un sogno. Con lo scontro navale

Gianpaolo SABBATINI: Dov’era l’anfiteatro di Torino? Un’ipotesi.

da “Europa Reale” n. 3 – Anno 2, n. 1 – gennaio 2001

La scoperta relativamente recente (XIX secolo), nei pressi del duomo, dei resti del teatro romano di Torino non ha stimolato adeguatamente più approfondite ricerche per individuare anche l’esatto sito in cui si trovava l’anfiteatro, anch’esso certamente presente, come nelle altre città romane di una certa importanza in Piemonte.

Nel secondo secolo, in cui la città di Torino ebbe una grande fioritura, l’anfiteatro era certamente già presente ed in esso si svolgevano ordinariamente i giochi pubblici, tra i quali i “gladiatorii”. Gli ultimi di questi spettacoli ebbero luogo probabilmente sul finire del quarto secolo ed agli inizi del quinto, allorchè il vescovo di Torino San Massimo ne vietò la prosecuzione, in armonia con quanto disposto da Paolo Onorio, nel 403 o 404.

Da allora, o poco dopo, ha inizio l’oblio per il grande e caratteristico edificio, trasformato, come molti altri, in una cava di materiale da costruzione.

Il mancato stimolo, in epoca a noi più vicina – ed anche nell’attuale – a ricercarne l’ubicazione ed i resti è in realtà motivato da una duplice convinzione – che si ha modo di ritenere erronea – per la quale il sito dell’anfiteatro sarebbe a grandi linee conosciuto, ma l’edificio risulterebbe interamente demolito. L’ubicazione, secondo tale ipotesi, è in prossimità della antica porta detta “Marmorea”, che si apriva sull’asse dell’attuale via Santa Teresa, nel punto ove, in linea pressocchè retta, giungeva la via proveniente da Porta Palatina. L’anfiteatro, stando alle antiche stampe, si troverebbe presso piazza San Carlo. Poiché di esso, nel luogo così indicato, non si è mai trovato nulla, è necessario chiedersi su cosa si basasse la suddetta convinzione, analizzandone le fonti. La “Storia di Torino antica” del Rondolino (Torino, 1930) è una preziosa raccolta di dati, notizie e disegni. Da essa si apprende che il Maccaneo, nel 1508, segnalava le bellissime forme dell’anfiteatro di Torino, mentre il Panciroli, docente in legge a Torino tra il 1570 e il 1582, scriveva: “Fuor di Torino, nella strada verso Pinarolo, si vedono i vestigii di un Anfiteatro, se bene non di quella perfettione dell’anfiteatro di Verona”. Anche Filiberto Pingone, nel 1577, colloca l’anfiteatro presso la porta Marmorea (probabilmente così chiamata poiché ornata di marmi e ceramiche, apposti – quasi una forma di pubblicità – dai numerosi artigiani operanti nel quartiere cui la porta dava immediatamente accesso, zona detta, fin dal medioevo, “Faubourg des marbres”). Il Rondolino afferma: “Vuolsi credere che dell’area circolare dell’anfiteatro rimanesse allora solamente lo stagno circondato da monticelli e dal Pingone ricordato, poiché il sobborgo circostante fu atterrato dai Francesi nel 1536 …; è perciò fantastica la ricostruzione che ne venne fatta in un disegno a penna della fine del secolo XVI, che lo pose all’angolo sud-ovest delle mura ed a ponente della Cittadella”.

I monticelli (“monterucchi”), fuori della Porta Marmorea, presso la strada di San Salvario, sono segnalati in un documento torinese del 1149 ed in alcuni “Ordinati Comunali” dei secoli XVI e XV. Più tardi, nel 1819, Modesto Paroletti allega alla sua opera “Turin et ses curiositès”, la pianta della città (disegnata dall’arch. Bagetti) come pensava fosse in tarda epoca romana e nel medioevo e disegna un anfiteatro perfettamente circolare situato nella zona tra le attuali piazza San Carlo e Via XX Settembre. Poiché all’epoca del Paroletti era scomparsa qualsiasi traccia di edificio romano in quella zona – urbanizzata ed inclusa nella nuova cinta muraria fin dalla prima metà del XVII secolo – si deve pensare che l’autore non abbia fatto altro che attenersi alle osservazioni del Maccaneo e del Panciroli, senza nulla aggiungere. Da notare, oltretutto, che se l’anfiteatro era ridotto, nel 1149, a semplici monticelli contornanti un laghetto, come poteva, molti decenni dopo, apparire quasi integro …

TOMBAROLI.

Da quando l’uomo ha cominciato a seppellire i suoi cari in tombe fastose dotate di corredi ricchi ed abbondanti, hanno fatto comparsa sulla terra i tombaroli. Già ne abbiamo traccia durante l’antico regno degli Egizi (esattamente la IV dinastia), dove per proteggere la mummia del faraone dai predoni del deserto non solo venivano inserite trappole ed ostacoli invalicabili all’interno delle piramidi, ma venivano anche allestite vere e proprie truppe di monaci difensori all’interno del recinto sacro (e molte volte erano loro gli stessi predatori). Inoltre con il passare dei secoli saccheggiare le tombe dei grandi faraoni non solo diventò un mestiere ma anche un’arte: si arrivò persino a scrivere testi che aiutavano il “curioso” a orientarsi nelle grandi tombe ed a scegliere gli oggetti più raffinati (il cosiddetto “libro delle perle nascoste”). Anche a Roma abbiamo esempi tangibili della presenza di tombaroli “pionieri” , infatti non sono rari agli archeologi ritrovamenti di tombe etrusche saccheggiate in epoche precedenti: i romani in questo erano maestri, e le impronte del loro passaggio sono tutt’oggi chiare e riconoscibili, in quanto si accontentavano solo degli oggetti in metallo, unguentari, e vasi corinzi, buttando a terra tutta la ceramica comune ed il bucchero.

Nell’anno 44 a. C., Giulio Cesare dedusse una colonia nel posto dove sorgeva Corinto (già distrutta dai Romani nel 146); i primi coloni cominciarono a costruire case ed officine nei propri appezzamenti di terreno e cominciarono così a rinvenire tombe contenenti centinaia di vasi corinzi e bronzi eccellenti molto graditi nei palazzi imperiali (aes corinthium): il fenomeno fu talmente apprezzato che a Roma vennero persino aperte botteghe e negozi che vendevano (a caro prezzo) oggetti provenienti dalle tombe di Corinto, i cosiddetti “necrocorinzi”. Il saccheggio delle tombe etrusche continuò per parecchi anni fino a quando ebbe il suo massimo apice commerciale alla fine della seconda guerra mondiale, quando la povertà spinse migliaia di contadini del centro e sud Italia a vendere reperti impareggiabili ad ingenti collezionisti americani e svizzeri per un tozzo di pane. Oggi tra i moderni agricoltori con problemi finanziari il confine tra lecito ed illecito è molto sottile, e’ molto facile imbattersi in tombe e camere funerarie durante l’aratura, così per curiosità o per casualità ci si ritrova con reperti preziosi tra le mani.

Il lavoro del tombarolo si articola solitamente in più fasi così suddivise:
– Ricognizione
Per procedere al rinvenimento di una tomba, il tombarolo deve prima scoprire una necropoli possibilmente intatta, cosa molto difficile in quanto le necropoli dei popoli italici sono visibili anche ad occhi inesperti grazie alla presenza del “tumulo funerario”, una massa di terra quasi sempre circondata da pietre, caratterizzata da un diametro notevole ed alta a volte più di due metri, posizionata sopra la sepoltura. La prima delle mosse di ricognizione è quella di localizzare un appezzamento di terreno idoneo a contenere una necropoli: un terreno costellato di tumuli di terra grandi e piccoli, o pietre posizionate sulla terra verticalmente, è il luogo adatto. Anche la presenza di pareti rocciose o rovine è un buon segnale in quanto esistono le cosiddette necropoli rupestri, molte volte scavate nel tufo. Un abile tombarolo per localizzare una sepoltura si basa sul colore della terra e dell’erba che denota macchie di colore diverso simili ad “isole” circolari sopra una cavità, o sulla crescita smisurata di alcune specie di piante isolate (dovuta alla consistente umidità del sottosuolo): l’erba medica coltivata nei campi e’ un ottimo segnale in quanto forma veri e propri negativi della tomba sepolta.

L’attrezzo saggiatore del tombarolo medio rimane sempre il cosiddetto spillone: una stecca di ferro appuntita lunga circa un metro e mezzo che serve a sondare il terreno. Come lo spillone trova il coperchio di una tomba, con un abile