Andrea ROMANAZZI: Culti Agrari e Rituali di Fertilità. Analisi comparata di alcune tradizioni popolari friulane e del folklore lucano.

In molte tradizioni contadine italiane, seppur geograficamente lontane tra loro, troviamo alcuni temi comuni che sembrerebbero legare indissolubilmente il mondo agrario ad antiche tradizioni pagane. Le forme estatiche, i rituali di fertilità ed in particolare l’incontro con i morti sembrano essere filo conduttore di una cultura “subalterna” mai del tutto scomparsa. La continua associazione tra mondo contadino e il tema della morte sembrerebbe preludere una stretta unione tra questi due aspetti, basti pensare ai rituali legati al pianto funebre e al cordoglio nelle tradizioni agricole. Per conoscere il legame che c’è tra le tradizioni legate alla morte e i rituali di fertilità dei campi dobbiamo addentrarci tra i ricordi friulani e la magia lucana, due regioni distanti e profondamente diverse tra loro che però nascondono il seme comune del paganesimo silvano. Non è un caso che queste tradizioni si siano conservate in zone favorite dall’isolamento e accomunate dalla paura del negativo nella vita quotidiana e delle angustie della povertà agricola. Il sopravvivere di una cultura subalterna contadina ancora attaccata a queste credenze, attraverso ricordi, narrazioni, passaggi e sincretismi ha permesso il tramandare delle stesse fino al secolo scorso.

Una tipica tradizione dell’area friulana è quella dei Benandanti. Secondo i racconti contadini, i Benandanti sarebbero delle persone particolari, portatori di un culto di fertilità e difensori di campi e raccolti contro streghe e stregoni, in un’immagine stereotipata della morte che accomuna l’area nord Italiana con quella tedesca e balcanica legata alla figura di Frau Holle (Cossar, 1933). Queste persone sono caratterizzate dall’evento di essere nati con la “camicia”, in realtà un pezzo di placenta che da sempre, nella tradizione popolare era considerata come sede dell’anima. Forse è da questa credenza, che i Benandanti vengono considerati delle persone del tutto speciali, le uniche a poter guarire le persone dai malocchi e dalle fatture delle streghe, in grado di assicurare la fertilità dei campi. Del resto l’espressione popolare “nascere con la camicia”, ad indicare persone particolarmente fortunate, sembrerebbe proprio sottolineare questo atavico legame. E’ dunque la camiciola a rendere una persona “benandante”, non solo, ma è il suo stretto contatto a garantire la eccezionale condizione psichica del soggetto. Perdere la placenta significava non avere più alcun diritto di fascinazione e infatti molte sono le testimonianze in tal senso. “…portava quella mia camiciola al collo sempre, ma la persi et dipoi che la perdei non ci son più stato alli raduni…”( C. Ginzburg, 1996).

La tradizione vuole che in particolari periodi dell’anno questi magi si scontrerebbero contro streghe malefiche in una battaglia a colpi di rami di finocchio e di sorbo per assicurare, nel caso di loro vittoria, le fertilità dei campi.

“…Io sonno Benandante perché vò con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè nelle quattro tempora, di notte, invisibilmente con lo spirito et resta il corpo…noi con le mazza di finocchio et loro con le canne di sorgo…”( C. Ginzburg, 1996)

Ecco così trasparire lo stretto legame, di tipo sciamanico, tra il masciaro e la fertilità campestre. Questi combattimenti erano sicuramente il ricordo di antichi riti agrari, infatti la vittoria o la sconfitta nello scontro poteva assicurare fertilità ai campi o, in caso contrario, un periodo di ristrettezze. Si potrebbe così rivedere, in questo “scontro”, una riproposizione di rituali agrari ben più antichi e legati a quello che il Frazer definirebbe spirito arboreo, spesso identificato come l’aspetto maschile del culto primigenio della Grande Madre ( A. Romanazzi 2003)

All’inizio la divinità è vista e concepita come immanente, essa permea tutto ciò che circonda il selvaggio e dunque essa è anche dendromorfa. Nell’evoluzione del pensiero religioso-sciamanico primitivo la divinità, seppur nella su

Giuseppe PIPINO: I Liguri? Mai esistiti.

Il titolo, ovviamente esagerato e provocatorio, scaturisce dalla recente visita alla mostra di Genova, mostra che mi ha deluso, sia perché mi aspettavo di più e di meglio, dato il grosso impegno intellettuale ed economico profuso, sia perché non mi aspettavo certo di ritrovarvi l’esagerata e retriva sopravalutazione della tipicità e della grandezza del “popolo ligure” e, nel contempo, l’estrema sottovalutazione descrittiva della loro “celticità”, valutazioni che, peraltro, sono entrambe contraddette dalla maggior parte dei reperti esposti. Mi auguro pertanto che questa mia serva ad aprire un dibattito serio sull’argomento.

La mostra apre con l’esaltazione della presunta citazione di Esiodo, secondo la quale i Liguri sarebbero stati uno dei tre grandi popoli occidentali, mentre è da tempo dimostrato che questa favoletta, alla quale non crede, o non dovrebbe credere, più nessuno, è dovuta ad errata trascrizione della originaria dizione libui (libici) in ligui (liguri).

In tempi recenti è stata ripresa in considerazione dagli studiosi italiani l’opinione, già espressa a metà del Novecento da storici francesi, secondo la quale al tempo delle prime frequentazioni greche venivano indicate come “liguri” quelle popolazioni, abitanti nel sud delle Gallie, di cui non si conoscevano origine ed appartenenza etnica. Strabone, come segnalato nella mostra, li definisce stirpe diversa ma simile ai Celti (Galli), ma si tratta di una testimonianza tardiva. Nella mostra non si fa invece alcun riferimento all’unica autodefinizione dei Liguri, quella secondo la quale essi appartenevano alla stirpe degli Ambroni, cioé ad una popolazione germanica che, da altre fonti, sappiamo essere stata spinta da invasioni celtiche in Italia, dove occuparono l’area definita Gallia cispadana, la quale, come è noto, assieme a quella traspadana costituiva la Gallia (o Celtica) Cisalpina.

Della celticità dei Liguri, come detto, gridano, inascoltati dagli organizzatori, gli stessi reperti esposti. La lingua attestata in alcune stele della Lunigiana, già ritenuta celtica ai primi del Novecento, dopo decenni di oscurantismo ligurista è stata riconfermata celtica dai maggiori linguisti; d’altra parte alcuni dei personaggi raffigurati portano armi caratteristiche dei Celti. Ed armi tipicamente celtiche sono la maggior parte di quelle esposte, non solo, ché tutte le spade sono state ripiegate, all’ uso celtico, prima di deporle nelle tombe. E celtiche (padane) sono le monete di Serra Riccò, esposte senza alcuna definizione specifica.

Personalmente sono poi rimasto deluso dal misero spazio riservato alle attività minerarie, per le quali, proprio in Liguria, abbiamo testimonianze che sono tra le più antiche ed interessanti d’Europa: anzi, il sicuro manico di piccone utilizzato nella miniera di Libiola è inserito in sede generica e definito “manico di ascia o attrezzo di lavoro” (non sarà forse perché esso assomiglia troppo a quelli utilizzati in miniere di area celtica?). E che dire poi della mancata citazione degli imponenti resti dello sfruttamento aurifero nell’ Oltregiogo genovese, resti del tutto analoghi a quelli presenti in molte zone della Gallia transpadana ?

Autore: Giuseppe Pipino

Laura TUSSI: I luoghi dell’educare.

Recensione al libro di G. Balduzzi e V. Telmon, Storia della scuola e delle istituzioni educative, Guerini, Milano 1998.

La scuola come istituzione rivolta, nello specifico, all’infanzia è risultato della modernità, in quanto il passato la poneva come “luogo separato” adibito alla formazione. Lo studio di Gianni Balduzzi e Vittorio Telmon traccia il percorso evolutivo nel tempo e le linee di sviluppo del modello scuola più recente che arriva all’obbligo formativo, fino ai problemi che investono attualmente la sua funzione e i diversi aspetti organizzativi, didattici e gestionali. La storia e i percorsi delle realtà educative e pedagogiche si sviluppano parallelamente agli usi e ai costumi, alla cultura e alle tradizioni di civiltà, di popoli, in diversi tempi, in varie epoche storiche. Il libro analizza l’evoluzione del modello scolastico nello spazio e nel tempo con l’obiettività e il giudizio scevro da contaminazioni modernistiche e da opinioni maturate alla luce dei cambiamenti e delle transizioni che l’istituzione educativa ha affrontato nell’ultimo secolo.

Le differenti culture pedagogiche ed educative propongono e stabiliscono obiettivi e regole in base al cui conseguimento si determinano i valori, gli ideali, le norme etiche, i precetti morali trasmessi all’individuo, dal punto di vista della realizzazione dell’”uomo possibile”.

Gli autori analizzano in una panoramica storica, sociale e culturale la nascita della scuola dall’Egitto alla Grecia, per poi proseguire con la descrizione delle modalità didattiche e dei contenuti pedagogici ed educativi, lungo il corso della storia e delle varie culture.

Anche il monachesimo e la Schola Palatina di Carlo Magno aprono la strada all’ affermazione della scuola cristiana. Dall’istruzione elitaria e circoscritta a pochi adepti si valuta lo sviluppo delle istituzioni educative nell’età moderna, fino a giungere alla scuola dell’obbligo, anche in Italia.

Autore: Laura Tussi

Roberto PETRIAGGI:Tecniche innovative per restaurare sott’acqua.

Tecniche innovative per restaurare sott’acqua. I recenti esperimenti condotti dal Nucleo subacqueo dell’Istituto Centrale per il Restauro.

Nel settembre scorso, presso il Parco Archeologico sommerso di Baia (Bacoli-NA), si è svolto il 2° cantiere sperimentale di restauro subacqueo di strutture archeologiche sommerse. Progettista e direttore dei lavori è stato Roberto Petriaggi, direttore del Nucleo per gli interventi di archeologia subacquea dell’Istituto Centrale per il Restauro, che già nel 2001 aveva avviato analoga sperimentazione presso la Peschiera romana di Torre Astura (Nettuno-Roma), grazie alla disponibilità e alla collaborazione della Soprintendenza per i Beni archeologici del Lazio e della Direzione del Poligono Militare di Nettuno.

Anche in questo caso, è stata preziosa e indispensabile la cooperazione della Soprintendenza Archeologica per le Provincie di Napoli e Caserta, che ha messo a disposizione una porzione di area archeologica e ha offerto il contributo degli operatori del proprio nucleo subacqueo, permettendo ai tecnici dell’ICR di ampliare, con questo intervento, le esperienze precedentemente acquisite. Oggetto della sperimentazione di quest’anno è stato quello di testare nuovi strumenti e tecniche operative sulle strutture di un ambiente con mosaico pavimentale, facente parte dell’edificio denominato “Domus con ingresso a Protiro“, non distante dalla più celebre Villa dei Pisoni. Il pavimento si presentava fortemente degradato, con una macroscopica infestazione da parte di agenti biologici marini e in grave dissesto strutturale per il cedimento del massetto di fondazione.

Le fasi di lavoro, che hanno visto impegnati gli esperti dell’Istituto coadiuvati dai colleghi della Soprintendenza coordinati dal dr. Paolo Caputo, possono essere suddivise in quattro momenti principali: valutazione dei parametri ambientali; diserbo e pulitura delle superfici architettoniche; riempimento delle lacune del mosaico e ripresa dei paramenti murari; consolidamento e risanamento del dissesto strutturale del pavimento.

Per la pulitura delle superfici, oltre agli strumenti tradizionali già utilizzati a Torre Astura, è stata impiegata per la prima volta una microfresa pneumatica per abradere i residui carbonatici degli organismi marini su superfici particolarmente delicate, quali quelle delle tessere musive e degli affreschi.

A Torre Astura, per l’erogazione delle malte di allettamento e di consolidamento strutturale erano state impiegate sacche di tela impermeabile di forma conica.

A Baia è stato utilizzato anche un prototipo di erogatore subacqueo di malta a pressione, costituito da un serbatoio di acciaio inox alimentato da una bombola di aria.

Una pistola a ugelli intercambiabili di vario calibro, manovrata dal restauratore, permette di
rilasciare il giusto quantitativo di malta per ogni esigenza, sia che si tratti di colmare una profonda lesione, sia che si debba intervenire nel riempimento di una lacuna. Al termine dell’intervento le strutture sono apparse libere dagli infestanti biologici, risarcite delle lesioni e delle lacune e perfettamente leggibili, sia per lo studioso, sia per i visitatori.

E’ ovvio che tale situazione non è destinata a protrarsi nel tempo perché, in assenza di provvedimenti per contenere l’aggressione degli organismi colonizzatori, i muri ed il tappeto musivo saranno presto ricoperti, oltre ad essere soggetti al degrado meccanico e chimico dovuto ai fattori ambientali.

Per ovviare ad inconvenienti di questo tipo, per le strutture non facenti parte di un percorso di visita, il metodo di protezione più semplice ed economico è costituito dalla ricopertura con geotessuto bianco e sabbia, accompagnato da una periodica ed insostituibile sorveglianza da parte del personale tecnico.

Questa procedura potrebbe servire anche per i settori costituenti il percorso di visita ma, in questo caso, le strutture andrebber

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