Tutti gli articoli di Feliciano Della Mora

Michele Zazzi. Le navi etrusche.

L’aspetto delle navi etrusche può essere desunto prevalentemente dalle fonti iconografiche.
Gli autori Greci e Romani infatti scrivono del dominio degli Etruschi sui mari dell’Italia preromana, evidenziando la loro fama di temibili pirati ma ci forniscono poche notizie sulle navi etrusche. Plinio il Vecchio (Nat. Hist. VII, 57; VIII, 209) riferisce che il rostro delle navi sarebbe stato inventato dagli Etruschi; Livio (Storie, XXVIII, 45), ci parla di vele di lino e del legno utilizzato per la costruzione delle imbarcazioni: quercia e faggio per la chiglia e le parti interne, abete per gli alberi.
Anche i contributi derivanti da relitti risultano poco significativi per la difficoltà di attribuire con certezza l’origine etrusca delle navi (in considerazione della frequente eterogeneità dei carichi) e per lo stato di conservazione degli stessi.
I modellini di barchette d’impasto del periodo villanoviano (in particolare da Tarquinia), rinvenuti per lo più in contesti funerari e quindi con valenza probabilmente allusiva all’ultimo viaggio, non forniscono elementi di rilievo in ordine alla tipologia delle imbarcazioni etrusche.
Alcuni elementi possono semai essere tratti dalle testimonianze iconografiche etrusche delle fasi orientalizzante ed arcaica.

Il cratere di Aristonothos del 650 a.C. (proveniente da Cerveteri e conservato ai Musei Capitolini) potrebbe rappresentare uno scontro tra una nave greca (a sinistra) ed una nave etrusca (a destra). La prima sembra essere una nave da guerra con scafo piatto, poppa alta e prua con sperone ed occhio apotropaico. La nave di destra sembrerebbe invece di tipo mercantile, a vela, con scafo maggiormente profondo e ricurvo, prua con sperone aguzzo, poppa con doppio timone ed albero al centro dello scafo. Relativamente all’equipaggio l’imbarcazione greca presenta chiara distinzione tra rematori e soldati sul ponte; la nave etrusca contiene guerrieri pronti allo scontro sul ponte ed un uomo sulla coffa con compiti di avvistamento.

Un piatto ceretano dalla necropoli di Acqua Acetosa Laurentina della metà del VII secolo a.C. sembrerebbe rappresentare un’imbarcazione da pesca. La nave presenta scafo ricurvo, prua appuntita, poppa revoluta ed albero al centro con vela rettangolare. Si vedono anche nove remi ed un grosso pesce colpito da un uomo munito di fiocina a prua.

Il disegno di una nave da guerra si ritrova sulla stele di Vel Kaikna databile al V secolo a.C. (e proveniente dalla necropoli dei Giardini Margherita a Bologna). A poppa il timoniere regge il timone, sul ponte vi sono due guerrieri con corazza e la vedetta, che indossa un mantello, a prua scruta l’orizzonte. La nave è fornita di sperone. Le vele sono ripiegate. Dalla chiglia dell’imbarcazione sbucano sette remi e si vedono anche le teste di tre rematori.

La tomba della Nave (di Tarquinia databile alla metà del V secolo a.C.) prende appunto il nome dalla rappresentazione (sulla parete sinistra) di una grande nave da carico con lungo scafo, alta prua e poppa. L’imbarcazione presenta due alberi (per facilitare le manovre) dai quali si diparte il sartiame. Sul ponte vi sono cinque marinai dediti alle manovre. Nei pressi della poppa si scorgono due grossi remi con funzione di timone.

Si ritiene che inizialmente (fase villanoviana) gli Etruschi si siano ispirati a modelli di imbarcazioni egei e fenici, ma che le loro imbarcazioni abbiano nel tempo (periodo orientalizzante ed arcaico) assunto caratteristiche proprie. Lo scafo delle navi etrusche sembra ampio e capiente e si evidenzia per la presenza di uno sperone a prua (o di una prua particolarmente aguzza) per colpire le navi nemiche, ma anche con funzione di tagliamare ed al fine di favorire un miglior galleggiamento dello scafo. Si è pertanto pensato ad una tipologia di nave ibrida con connotati mercantili, ma adattabile anche al combattimento. Dall’iconografia si ricava anche che le navi etrusche potevano essere dotate di un doppio cassero (ponte sopraelevato), avevano un albero centrale, venivano governate da due timoni a poppa ed utilizzavano vele quadrangolari.
Successivamente, a cominciare dal V secolo a.C., la funzione delle navi si sarebbe sempre più diversificata come sembrerebbe attestato dalla nave oneraria riprodotta nella tomba della Nave e dall’imbarcazione da guerra rappresentata nella stele di Vel kaikna.

Sulle navi etrusche cfr., tra l’altro:
– Giulia Pettena, Gli Etruschi ed il Mare, Ananke, 2002;
– Claudio Castello, Gli Etruschi sul mare.

Di seguito immagini del cratere di Aristonothos, del piatto da Cerveteri di Acqua Acetosa Laurentina, del disegno della stele di Vel Kaikna e la rappresentazione della nave della tomba omonima di Tarquinia.

Autore: Michele Zazzi – etruscans59@gmail.com

Francesca Bianchi. Giovanni Di Stefano: le città dei Greci di Sicilia.

La colonizzazione greca dell’VIII-VI sececolo a.C. fu il movimento di uomini più imponente nella storia del Mediterraneo. Nessun modello migratorio moderno può paragonarsi alla colonizzazione greca della Sicilia. Le dinamiche economiche, parentali, sociali e commerciali che determinarono questo fenomeno furono all’origine dei processi di fondazioni di nuove città. Il ruolo politico e religioso degli ecisti, delle città-madre e delle élites furono determinanti nei processi di occupazione dei territori da parte dei Calcidesi, dei Megaresi e dei Corinzi che fondarono colone primarie (Naxos, Siracusa, Megara ecc.) e secondarie (Selinunte, Camarina, Agrigento).
La scelta dei siti e la prima urbanizzazione delle aeree pubbliche (civili e religiose) è un processo unico nella storia urbana del mondo antico d’Occidente . Anche la monumentalizzazione delle colonie con gli edifici civili (il teatro di Siracusa) e i templi (il tempio di Zeus a Selinunte, l’Olympieion di Agrigento) può considerarsi un unicum nella storia dell’architettura greca.

FtNews ha intervistato l’archeologo Giovanni Di Stefano, autore del libro I Greci di Sicilia. Le città (Abulafia editore, 2022). Il testo, voluto dalla Banca Agricola Popolare di Ragusa e impreziosito dalle belle foto di Luigi Nifosì, si avvale di una pregevole introduzione curata dal prof. Massimo Cultraro…

Leggi tutto nell’allegato: Le città dei greci di Sicilia

Autore: Francesca Bianchi – francesca-bianchi2011@hotmail.com

Info:
Autore: Giovanni Di Stefano
Introduzione: Massimo Cultraro
Fotografie: Luigi Nifosì
Data di Pubblicazione: 31 novembre 2022
ISBN: 978-88-946237-8-9
Pagine: 152 [Cartonato a colori 300×240 mm]
Edizioni Abulafia
https://www.abulafiaeditore.it/index.php/prodotto/greci-sicilia/

Michele Zazzi. I graffioni etruschi.

Con il termine graffione ci si riferisce ad un’asta di bronzo terminante in più uncini (con un diametro anche superiore a 40 cm).
Alcuni presentano punte arrotondate attorno ad un anello centrale (graffioni a corona circolare); altri sono costituiti da ganci perpendicolari rispetto ad una barra trasversale (graffioni a barra trasversale). Tali oggetti sono caratterizzati da immanicatura cava che doveva servire per l’inserimento di un asta lignea anche al fine di infiggere il graffione nel terreno.
In passato si era ipotizzato trattarsi di ganci/forchettoni per cuocere/prendere la carne sul fuoco per uso cultuale.
Secondo l’interpretazione attualmente prevalente dovevano essere strumenti per l’illuminazione artificiale, ottenuta tramite una corda che, attorcigliata agli uncini, veniva imbevuta di materiale combustibile. Tale lettura sembrerebbe confermata dalle fonti (Servio; Elio Donato), ma anche da uno specchio etrusco da Civita Castellana (al Metropolitan Museum di New York), della seconda metà del IV secolo a.C., dove, accanto agli sposi Admeto e Alcesti, è raffigurato un personaggio con un graffione in mano con corda attorcigliata nell’atto di prendere fuoco.
Tali strumenti, databili tra il V ed IV secolo a.C., sono stati sovente rinvenuti nel corredo di tombe etrusche. Nelle necropoli di Spina alcuni graffioni sono stati rinvenuti ai lati del defunto, vicino alle mani o sopra la testa.

Immagini: Graffioni esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze nel Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria di Perugia e nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma e disegno dello specchio da Civita Castellana.

Sui graffioni cfr., tra l’altro:
Tesori dalle Terre d’Etruria La Collezione dei Conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona, Sillabe, 2020, pagg. 231 -233

Autore: Michele Zazzi – michele.zazzi@alice.it

Michele SANTULLI. Lo sfacelo di Ischia e dei Campi Flegrei.

La natura e l’arte è un pò arduo che si siano espresse altrove in maniera più conforme ed aderente che a Ischia e ai Campi Flegrei: l’una, una gemma incastonata nell’azzurro del mare e gli altri, un cammeo in una cornice dorata!
Già in epoca remota località affascinanti, invase ed occupate da pirati, da avventurieri, da popolazioni lontane, poi dai Greci, poi ancora dai Romani poi, secoli dopo, dai viaggiatori europei incantati ed ammaliati da tante bellezze di una natura particolare.
I Greci principalmente hanno lasciato tracce visibili della loro occupazione oltre alla onomastica: Pithekoussai, Epomeo, Procida, Cuma in greco…
In una necropoli negli anni ‘50 del secolo scorso fu rinvenuta, frantumata, una coppa decorata che, restaurata, evidenziava una iscrizione, incisa con uno stilo da qualche greco dell’epoca – circa 700 a.C. – che inebriato dal succo di Bacco dell’isola felice, dice: “chiunque beve da questa coppa, sarà preso immediatamente dal desiderio di possedere la bellissima Afrodite incoronata”… è la coppa di Nestore di cui, scrivono gli studiosi, parla Omero nell’Iliade.
Quanto avvenne nel corso dei secoli in questo luogo incantato per natura ed arte fa parte della storia.
campi flegreiPoi vennero i Romani ed in particolare ai Campi Flegrei trovarono il loro autentico paradiso: quel mare, quel sole, quell’atmosfera dolce, quegli effluvi degli agrumi e dei limoni e dei fiori… tutti, frastornati e ammaliati, a partire dagli imperatori – Augusto, Tiberio, Caligola, Nerone, Adriano, Antonino Pio… – si fecero costruire le loro sontuose ville in questo angolo magico del Golfo di Napoli o vi vennero a morire: natura incontaminata e fuochi e fumi che uscivano ed escono dal suolo, ricercati per le cure del corpo, i fanghi salutiferi, le sorgenti di acque termali e poi piccoli laghi, alcuni miracolosi per la ricchezza della pesca: perfino le ostriche vi furono inventate, se così si può dire, e le spigole e le orate in particolare, grazie ad un personaggio dell’epoca divenuto leggendario imprenditore, perfino il nome una promessa, Sergius Orata! Anche Marco Agrippa, Cicerone, molti nobili romani, si insediarono nel golfo di Pozzuoli con ville che i resti ne lasciano immaginare la opulenza: Caio Mario costruì la sua sfarzosa residenza nel posto più pittoresco di Capo Miseno dove anni dopo l’imperatore Tiberio, come raccontano gli storici, venne a trascorrere gli ultimi anni della sua esistenza.
A Miseno divenuto il porto vitale di Roma, era ancorata anche la flotta sotto il comando di Plinio il Vecchio che intervenne, trovandovi la morte, in occasione del terremoto di Pompei nell’ottobre del 79 d.C.
In uno di questi laghetti, il lago di Averno, forse a seguito di tutti quei fuochi e fumi e acqua bollente che sgorgava, e sgorga, dalle rocce e dal suolo, fu considerato da Virgilio la sede degli inferi, l’inferno dei perversi. E qui, sottoterra dunque, il poeta immaginava non solo l‘inferno ma anche il luogo delle anime felici, i cosiddetti Campi Elisi, cioè l’Eden, il Paradiso.
E nel corso del 1700 e 1800 quando questi luoghi divennero meta prelibata dei viaggiatori europei nonché degli artisti e scrittori e poeti, non fu difficile i Campi Elisi vederli in superficie, in giro, al cospetto di quella natura ineguagliabile che godevano attorno e di cui si inebriavano estasiati: quel verde, quei profumi, quegli uccelli ed animali attorno, quella dolcezza dello zefiro, quelle vestigia imponenti delle antichità, quelle opere d’arte visibili perfino giù nel mare azzurro a seguito di certi fenomeni tettonici detti bradisismi..…
I viaggiatori europei, in gran parte originari di paesi nordici, a tale spettacolo di seduzione e di incanto nascevano a nuova vita, non pochi trovarono qui una seconda patria.
Andare oggi in questi luoghi, a Ischia e ai Campi Flegrei, una volta unici al mondo come nessun altro, è come andare a Ponticelli o a Scampia o al Vomero o a Posillipo: cementificazione totale, l’annientamento della natura, la completa quasi masochistica suicida cancellazione dell’antica poesia: i recenti disastri a Ischia lo rammentano e confermano; i Campi Elisi cancellati, tornati sottoterra affianco agli inferi!
Una favela, come tale disordinata e degradata, con la volgarità del contesto edilizio! In effetti è avvenuto che dopo le tante presenze da ogni parte del mondo nel corso dei secoli e dopo tanta bellezza e incanto preservati, è arrivata quasi alla fine, detto con Flaiano, l’invasione funesta al massimo degli Italiani!
La sola struttura architettonica moderna, degna e meritevole di essere menzionata e soprattutto ammirata e ricordata, è – incredibile che possa sembrare – lo stabilimento Olivetti fatto costruire negli anni ’50 del secolo scorso da Adriano Olivetti, entusiasta e sollecito fattivo del bene comune fino alla fine e, soprattutto, consapevole del significato dei luoghi!

Autore: Michele Santulli – inciociaria@gmail.com