Archivi categoria: Storia

L’ERBARIO DELLA BIBLIOTECA GAMBALUNGA DI RIMINI

Ricerca condotta sotto il controllo del professor Alessandro Vitale Brovarone, ordinario di Filogia Romanza della Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Torino

L’erbario della biblioteca Gambalunga di Rimini è inserito in un codice cartaceo miscellaneo datato al XV secolo, che contiene molti scritti di più mani : regole di flebotomia [cc 2 r- 5 v]; ricette di medicamenti [cc 5 v- 16 v]; un trattato di astrologia [cc 17 r- 47 v]; “secreti” medicinali, formule magiche, esorcismi [cc 48 r- 64 r e 112 r- 117 v]; un antidotario [cc 120 v- 158 v]; informazioni utili a chi si reca in pellegrinaggio a Roma [cc 159 r- 161 v].
L’erbario contiene un ricco repertorio di piante, che annovera al suo interno 99 specie differenti. Esso è organizzato secondo uno schema che vede ad ogni pianta dedicata una carta (fanno eccezione cc…..). La miniatura dell’erba, a tutta pagina, occupa solitamente la parte superiore della carta, mentre, subito sotto, segue il testo relativo in scrittura gotica corsiva. In esso sono contenute, oltre al nome dell’erba, spesso chiamata in diversi modi, le sue virtù. Queste si concretizzano in una dettagliata spiegazione riguardo le patologie o i problemi cui l’erba può far fronte. Spesso le diverse parti della pianta sono prese in considerazione separatamente all’interno della carta: per ognuna viene indicata una virtù specifica e consigliato il modo ottimale d’utilizzo ( cotta, spolverizzata, con vino, ecc…). Nel testo è inoltre presente il luogo in cui meglio si può reperire l’erba ed il tempo in cui essa può essere raccolta. Sono ancora presenti nell’erbario esseri favolosi, allegorici e pittoreschi, ma essi sono tutti confinati alla radice, parte più nascosta e misteriosa dell’erba. Per quanto riguarda le suggestioni antropomorfe si ricordano le radici della Mandragola maschio e femina, cui è legato l’atterrito cane, destinato a soccombere -come vuole la tradizione- al grido lacerante dell’erba estirpata; esibisce radici antropomorfe anche la Palma Christi, con radice a forma di mano. Hanno invece radici zoomorfe l’erba luccia maggiore (radice “a modo di pesce luccio”), l’erba viperina (radice a forma di lucertola), l’erba santirion (radice a forma di “testicolo vuolpini”). Si riscontra inoltre la presenza di radici calligrafico- simboliche nell’erba mula campana minore (radice a forma di Monciale) e nell’erba idriam maggiore (radice a forma di nodo semplice).

ALCUNE ERBE CONTENUTE

CARTA 66 r
Erba orifio loprio di questa erba quando la truovi//
****** chavare i ginocchiti e di a paternostro o e di //
cosi o santissima erba orifio a dio per te fa riverentia//
utassismerogolte prugo te con molta o legreçça//
chettu erba vengha amme con tucta la tua virtu e//
ongni vertu che idio ti die tu presti amme e saname //
in percio che Centanrione ritrovo le tue virtu e mi//
ssi** per medicine ne suoi libri e nasce in monte gallimo //
e in monte siracto e a figura dappio e fio** similmente //
e a sette radici e in ongni suo ramo an glie facte //
a modo di spada ongni tempo a fiori e seme come//
fava E al male dela siche il sugo dato a bere il tisicho /
/ libera e rendiglj il colore perduto El doctore lafferma //
X victu buone alcorpo humano//

CARTA 69 v
Erba fiore di saccho çachario o triuola a molte vertu gli fiori fanne acqua distillata//
e questa acqua e buona a ongni [ma]cula d’occhio lieva la maglia e rischiara//
la lucie E a gotta arteticha La foglia data mangiare e a bere libera la gotta//
La sua radicina seccha e spolverizata sopra la piaga libera e reduce a san[i]ta//
E gli fiori freschi pestati agli occhi lieva lardore e a ongni riscaldamento d’occhio//
e l’albugine e reduce a sanita a molte vertu nascie in terreni alpesci montuosi//
e prati sabbionosi e luoghi freddi//

Autore: Sarah Dal bo’

Email: sar

SOLE SOTTO LO STESSO TETTO. IL MONASTERO DELLE POVERE ORFANELLE DI TORINO NEL SETTECENTO

Introduzione alla tesi di Laurea anno accademico 1999-2000, relatore Professor Luciano Allegra

Il monastero della Santissima Annunciata di Torino era un’istituzione privata le cui incerte origini risalgono con ogni probabilità alla seconda metà del Cinquecento e all’attivismo di pochi conservatori e conservatrici; fra di esse emerge la figura della nobildonna Antonia Montafia Langosca di Stroppiana, che fu “… non v’ha dubbio, una delle più zelanti e benemerite Conservatrici della Compagnia, e, se non ne fu la fondatrice, ne fu certo la ristoratrice ed insigne benefattrice…”: a lei infatti si deve l’acquisto della prima porzione di casa destinata a ospitare l’istituzione almeno fino alla fine del XIX secolo.

Il fine che ebbero i fondatori nello stabilire l’Ospizio delle Orfane fu di togliere principalmente le figlie già in quell’età prima prive di padre e di madre per morte immatura dai pericoli del mondo, educarle cristianamente e civilmente secondo la loro condizione e così abituarle ad adempiere le obbligazioni connesse allo Stato religioso o secolare; o rimanersene nell’ospizio per il corso della loro vita secondo che lor sarebbe piaciuto: a proporzione che crescevano i redditi dell’ospizio …


In queste poche righe sono raccolte le caratteristiche essenziali dell’istituzione. Il Monastero delle Povere Orfanelle era infatti un’istituzione totale per donne, in cui le orfane accolte vivevano recluse, con poche possibilità di relazioni col mondo esterno, fino all’eventuale matrimonio o, sempre più frequentemente nel corso del XVIII secolo, per tutta la vita – l’altra possibilità di uscita era la monacazione che, forse per problemi dotali, costituiva però un esito poco frequente.

L’oggetto privilegiato delle mie attenzioni sono state le donne, sia in quanto destinatarie di assistenza, sia in quanto benefattrici e amministratrici dell’istituzione. Proprio l’analisi del ruolo svolto dalle donne nel Consiglio Direttivo ha riservato le principali sorprese. In una società quale quella moderna, in cui la carità era l’unico ambito nel quale si riconosceva alle donne un ruolo sociale visibile, anche se in una posizione subalterna all’elemento maschile, trovare un Consiglio Direttivo costituito in netta prevalenza da donne con pieni poteri decisionali rappresenta una eccezione di grande interesse storico.
Nel condurre la mia ricerca mi sono servita essenzialmente di fonti di prima mano. Il materiale archivistico di base è costituito dai registri d’ingresso e dagli atti notarili di costituzione di dote, che ho utilizzato per conoscere la fisionomia demografica, sociale e economica delle orfanelle. Sono ricorsa ai conti consuntivi e ai testamenti per lo studio dei benefattori, mentre, per indagare sulle origini dell’istituto, ho utilizzato i cenni storici delineati nel Regolamento dell’Orfanotrofio femminile di Torino stampato nel 1892, integrati con un saggio manoscritto di Giorgio Antonio Gola. Dallo stesso Regolamento ho tratto la lista dei congregati, all’interno della quale ho individuato un campione che ho cercato di studiare in modo approfondito, servendomi delle preziose informazioni biografiche gentilmente offertemi da Sandra Cavallo e ponendo attenzione soprattutto ai legami individuali e parentali dei benefattori e ai loro rapporti con altre istituzioni assistenziali della città. La consultazione degli Ordinati della Congregazione risalenti al XVIII secolo mi ha consentito di effettuare ulteriori integrazioni su ciascuno degli argomenti trattati.

Soprattutto a partire dal ‘600 in Italia, come in gran parte dell’Europa, si verificò un consistente sviluppo delle istituzioni caritatevoli, in concomitanza con l’affermarsi di una nuova concezione del povero, non più degno di compassione, ma fonte di paure, fastidi, ripugnanza e visto come sovvertitore dell’ordine. E’ in questo contesto che le istituzioni tesero ad assumere un carattere segregativo e si svilupparono progetti di espulsione dalla città

VIVE DE’ SUOI TRAVAGLI. DONNE, LAVORO E FAMIGLIA NELLA TORINO DI ANCIEN REGIME

Introduzione della tesi di in Storia economica, anno accademico 1999-2000, relatore professor Luciano Allegra

Oggetto di questa ricerca è il lavoro delle donne nella Torino di fine ancien régime.
Il lavoro delle donne come area di ricerca storica ha avuto, negli ultimi trent’anni, grande fortuna. Se è vero che “si fa sempre la storia del presente”, è ovvio leggere, nell’interesse storiografico per il rapporto tra donne, lavoro e famiglia, il riflesso di un secolo che “ha (..) scritto la storia dell’ingresso imponente delle donne nell’istruzione e nel lavoro dipendente” .

La bibliografia in merito è immensa, a partire dai classici anglosassoni di Alice Clark e Ivy Pinchbeck , che all’inizio del secolo hanno segnato il risvegliarsi dell’interesse al riguardo; ma lo sviluppo più notevole delle ricerche sul lavoro femminile risale all’ultimo quarto di secolo: l’affermarsi, a livello accademico, della storia delle donne come disciplina ha determinato un notevole impegno storiografico intorno all’esame della posizione occupata dalle donne nell’economia nei secoli passati. Il ventaglio di problemi e domande affrontato è stato molto ampio: dalla presenza numerica sul mercato del lavoro, al rapporto tra strategie familiari e strategie lavorative, al posto occupato dal lavoro nella costruzione dell’identità femminile.

Tuttavia, nonostante il notevole impegno profuso nella ricerca, i problemi lasciati irrisolti sono ancora numerosi. Pare estremamente difficile fare luce sul lavoro delle donne, che continua a sfuggire a definizioni precise, e il fatto che tra le sue caratteristiche fondamentali ci siano la scarsa formalizzazione e la labilità dei confini tra lavoro e non lavoro (intendendosi, con quest’ultimo, il lavoro di cura) sembra talvolta giustificare una certa vaghezza nell’argomentazione, che si nutre di affermazioni le quali non vengono poi suffragate da fatti concreti. Il lavoro delle donne viene così definito “flessibile” o “legato al ciclo di vita”, ma è molto difficile dare spessore a tali considerazioni, che rimangono spesso sospese nel limbo delle buone intenzioni storiografiche.
Le lacune tematiche sono ancora notevoli: studiare il lavoro delle donne ha spesso significato limitare l’attenzione alle “donne sole”, nubili o vedove, che più frequentemente compaiono nella documentazione. Molte delle difficoltà che incontra la storiografia nel definire in modo adeguato il lavoro femminile sono infatti imputabili alla reticenza, se non al silenzio, delle fonti. Quelle più tradizionalmente utilizzate per determinare numero e composizione della popolazione attiva, ad esempio le fonti censuarie, dagli stati delle anime ai moderni censimenti, tacciono troppo spesso sulle occupazioni femminili. I compilatori, parroci o funzionari statali, classificavano generalmente le donne esclusivamente in funzione del loro stato civile, come vedove, nubili o maritate: solo le serve residenti con i padroni venivano quasi sempre definite secondo la loro occupazione. Le sole, al di fuori delle serve, a cui talvolta venisse attribuita un’attività lavorativa erano appunto le “donne sole”, nubili o vedove. Erano le coniugate a passare maggiormente sotto silenzio come lavoratrici, e con loro le figlie nubili ancora conviventi con i genitori.

Al silenzio delle fonti ha fatto seguito il silenzio della storiografia: il fatto che “nelle attività organizzate a livello familiare, come quelle degli artigiani (…) il lavoro delle figlie e soprattutto delle mogli, pur assumendo in non pochi casi una grande importanza” rimanesse “invisibile e senza riconoscimenti giuridici” ha come diretta conseguenza la scarsa attenzione della ricerca per il lavoro delle donne sposate, che viene spesso liquidato come semplice compartecipazione all’attività del marito. Lo stesso vale per le giovani nubili che non andavano a servire: non sapendo molto di loro, ci si limita a ipotizzare la loro collaborazione all’economia familiare.

Quello dell