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LA FIGURA DEL BIBLIOTECARIO IN EPOCA AUGUSTEA E NELL’ATTUALITÁ

La nascita delle biblioteche a Roma
La nascita delle biblioteche a Roma sembra debba principalmente rifarsi alla conquista dell’Oriente, vale a dire della Grecia, Macedonia, Asia Minore e della costa africana intorno a Cartagine. Questo evento, seppur riassunto in poche parole, fu di importanza basilare per la storia di Roma, in quanto vide una serie di cambiamenti dapprima sul piano politico, poi, di conseguenza, su quello culturale. Sebbene questa relazione non miri allo studio degli aspetti diplomatici della conquista, credo sia fondamentale tracciare un piccolo quadro sulle diverse linee che caratterizzarono tale politica espansionistica: due sono i partiti antagonisti che andarono a scontrarsi sulla modalità di gestione dei terreni; l’uno, capeggiato dalla famiglia nobiliare degli Scipioni, propugnava la creazione di stati vassalli a capo dei quali sarebbero state poste aristocrazie filoromane; l’altro, che era possibile riconoscere nella politica di Catone, proponeva invece un controllo diretto. Sebbene ad averla vinta sia stato il partito catoniano, pur tuttavia gli Scipioni continuarono ad avere un rilevante peso in particolar modo per quanto concerne l’aspetto intellettuale.

Costoro diedero vita a un circolo culturale, per l’appunto il circolo degli Scipioni, costituito per la prima volta non solo dalle famiglie patrizie legate alla nobilitas senatoria, ma anche da elementi provenienti dalla aristocrazia provinciale e non meno da ceti affaristici e commerciali. Si trattava pertanto di un ambiente eterogeneo caratterizzato da tendenze diverse e maggiormente dinamiche. Ciò comportò un’acquisizione, per quanto non indiscriminata, della cultura greca e, insieme a quest’ultima, di tutto quanto la rappresentasse, quindi oggetti d’arte, personalità e non ultime, le biblioteche, il cui possesso venne sentito dai ricchi romani come un titolo di merito. Divenne così consuetudine per i generali vittoriosi trasportare a Roma intere biblioteche ricche di testi greci che poi venivano sistemate all’interno delle rispettive ville. Già da questi accenni è possibile immaginare il concetto di biblioteca che imperava a Roma: possiamo dire che si trattava di una nuova e aristocratica modalità per la conservazione del testo greco, dato che ancora non era emerso alcun interesse ad accrescere il fondo librario con la letteratura dei maiores: per tanto non si sbaglia affermando che il possesso di libri corrispondeva solo a una esigenza dettata dalla moda; in considerazione di ciò ritengo sia assai esplicativo, per quanto di molto posteriore al periodo che mi sto apprestando ad analizzare, un passo di uno dei dialoghi di Luciano, A un incolto che compra molti libri, in cui l’autore riporta una diatriba tenuta con un uomo che acquista libri solo per il gusto di possederli:


A dire il vero, ciò che ora fai è il contrario di ciò che vuoi: pensi di poter essere stimato anche tu una persona colta accaparrandoti sollecitamente i libri più belli; ma questo ottiene l’effetto contrario e diviene in qualche modo la prova della tua ignoranza. In particolare non compri nemmeno i più belli, ma credi a quelli che li lodano a caso…

Al riguardo ricordo una delle più importanti biblioteche private dell’epoca, quella che Lucio Licinio Lucullo portò dal Ponto a seguito della spedizione contro Mitridate. Ma già in questa fase, se vogliamo embrionale, è possibile fare delle osservazioni sull’uso e sulla gestione che si faceva dei libri, dal momento che lo stesso Lucullo aveva provveduto a far sì che i suoi libri fossero a disposizione di studiosi e amici (primo tra tutti Cicerone) romani e non, cosa per altro confermata da Plutarco, il quale, nella Vita di Lucullo, per l’appunto sostiene:

Ma quello che egli fece per l’allestimento di una biblioteca merita un fervido elogio. Raccolse infatti molti libri e ben scritti; l’uso poi che ne fece è ancora più onorevole del loro acquisto. I locali della biblioteca era

CARLO DENINA STORICO DEL PIEMONTE. POLITICA, STORIOGRAFIA E CULTURA DAI MATERIALI DELLA GESCHICHTE PIEDMONTS SINO ALLA ISTORIA DELL’ITALIA OCCIDENTALE

Introduzione della tesi di Laurea di Storia Moderna, relatore professor Giuseppe Ricuperati, anno accademico 1999-2000

La figura di Carlo Denina sfugge a sistematizzazioni frettolose, desiderose unicamente di collocare il percorso intellettuale di un uomo in comode classificazioni, che si vorrebbero valide al di là della complessità degli itinerari biografici. La vasta e differenziata produzione del letterato piemontese che spazia tra teologia, storia, storia della letteratura, politica, linguistica, poetica, animate e sostenute da una costante vocazione didattica e pedagogica, pongono lo studioso contemporaneo di fronte alla molteplicità degli interessi del letterato a riconferma di come durante tutto il secolo XVIII la specializzazione del sapere era soltanto nella sua fase iniziale, rendendo problematico delineare un percorso intellettuale chiaro e limpido. L’oggetto della tesi consiste nello studio del rapporto tra Carlo Denina e lo stato sabaudo, analizzato così come esso si delineò nel periodo in cui divenne professore di eloquenza italiana e lingua greca (1770-1777), e così come si configurò nelle molteplici opere dedicate allo spazio subalpino: la Geschichte Piemonts, pubblicata a Berlino tra il 1800 e il 1804 e la Storia dell’Italia Occidentale, composta a Parigi alla fine del primo decennio del XIX secolo, che riutilizzava ampiamente il materiale documentario usato per il libro tedesco, a sua volta debitore di altri scritti composti quando Denina si trovava ancora a Torino.

Dopo una breve ricostruzione biografica che vorrebbe inquadrare l’autore nel tempo in cui visse, optando più che per una ricostruzione analitica per l’individuazione delle diverse componenti culturali che sollecitarono il giovane studioso piemontese allora borsista al Collegio delle Provincie, identificate nel giurisdizionalismo sabaudo, cultura muratoriana, e variegato mondo diplomatico presente a Torino a metà del Settecento entro il quale si assisteva ad una rapida circolazione delle idee illuministiche e non proveniente da oltralpe; il secondo capitolo si occupa del periodo universitario, tra gli 1770 e 1777, momento in cui Carlo Denina, già noto a livello europeo per la pubblicazione delle Rivoluzioni d’Italia, aspirò ad ascendere i vertici dell’intellettualità subalpina, ponendosi come mentore di riferimento, suggeritore e legittimatore della nuova impostazione politica voluta nella prima fase del suo regno da Vittorio Amedeo III, salito al trono nel 1773. Lo studio delle orazioni universitarie, di una forma di letteratura ampiamente cristallizzata in precisi topoi, permette di cogliere la presenza, costante nella produzione deniniana, di una tematica tesa alla rivendicazione ad una più organica presenza dei letterati nella gestione del potere, in un rapporto di stretta collaborazione che tuttavia non doveva significare subordinazione, ma tensione proficua capace di contribuire al rinnovamento della compagine statale. Il modello di riferimento, come Denina chiarì nella Bibliopea nel 1776, rimaneva un funzionario colto, con un’adeguata formazione letteraria, inserito organicamente nelle strutture politico amministrative, sul modello del ducato di Milano. Modello che egli stesso aveva perseguito personalmente tentando di trovare un impiego nella Segreteria per gli Affari Esteri, il cui mancato inserimento lo condurrà ad indossare la veste talare. Nei Panegirici il professore di eloquenza italiana e lingua greca si rivolgeva direttamente al monarca e ad una platea che comprendeva con chiarezza la svolta intrapresa rispetto al periodo di Carlo Emanuele III, auspicando alcune precise scelte politiche e giustificando quelle intraprese. Il capitolo termina con l’analisi del maggior scritto teorico dello storico di Revello, la Bibliopea, e con l’esame delle Lettere brandeburghesi, consegnate dall’autore alla società subalpina durante il suo viaggio ‘germanico’ alla volta di Berlino, chiamato da Federico II nel 1783.

Il legame c

L’ERBARIO DELLA BIBLIOTECA GAMBALUNGA DI RIMINI

Ricerca condotta sotto il controllo del professor Alessandro Vitale Brovarone, ordinario di Filogia Romanza della Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Torino

L’erbario della biblioteca Gambalunga di Rimini è inserito in un codice cartaceo miscellaneo datato al XV secolo, che contiene molti scritti di più mani : regole di flebotomia [cc 2 r- 5 v]; ricette di medicamenti [cc 5 v- 16 v]; un trattato di astrologia [cc 17 r- 47 v]; “secreti” medicinali, formule magiche, esorcismi [cc 48 r- 64 r e 112 r- 117 v]; un antidotario [cc 120 v- 158 v]; informazioni utili a chi si reca in pellegrinaggio a Roma [cc 159 r- 161 v].
L’erbario contiene un ricco repertorio di piante, che annovera al suo interno 99 specie differenti. Esso è organizzato secondo uno schema che vede ad ogni pianta dedicata una carta (fanno eccezione cc…..). La miniatura dell’erba, a tutta pagina, occupa solitamente la parte superiore della carta, mentre, subito sotto, segue il testo relativo in scrittura gotica corsiva. In esso sono contenute, oltre al nome dell’erba, spesso chiamata in diversi modi, le sue virtù. Queste si concretizzano in una dettagliata spiegazione riguardo le patologie o i problemi cui l’erba può far fronte. Spesso le diverse parti della pianta sono prese in considerazione separatamente all’interno della carta: per ognuna viene indicata una virtù specifica e consigliato il modo ottimale d’utilizzo ( cotta, spolverizzata, con vino, ecc…). Nel testo è inoltre presente il luogo in cui meglio si può reperire l’erba ed il tempo in cui essa può essere raccolta. Sono ancora presenti nell’erbario esseri favolosi, allegorici e pittoreschi, ma essi sono tutti confinati alla radice, parte più nascosta e misteriosa dell’erba. Per quanto riguarda le suggestioni antropomorfe si ricordano le radici della Mandragola maschio e femina, cui è legato l’atterrito cane, destinato a soccombere -come vuole la tradizione- al grido lacerante dell’erba estirpata; esibisce radici antropomorfe anche la Palma Christi, con radice a forma di mano. Hanno invece radici zoomorfe l’erba luccia maggiore (radice “a modo di pesce luccio”), l’erba viperina (radice a forma di lucertola), l’erba santirion (radice a forma di “testicolo vuolpini”). Si riscontra inoltre la presenza di radici calligrafico- simboliche nell’erba mula campana minore (radice a forma di Monciale) e nell’erba idriam maggiore (radice a forma di nodo semplice).

ALCUNE ERBE CONTENUTE

CARTA 66 r
Erba orifio loprio di questa erba quando la truovi//
****** chavare i ginocchiti e di a paternostro o e di //
cosi o santissima erba orifio a dio per te fa riverentia//
utassismerogolte prugo te con molta o legreçça//
chettu erba vengha amme con tucta la tua virtu e//
ongni vertu che idio ti die tu presti amme e saname //
in percio che Centanrione ritrovo le tue virtu e mi//
ssi** per medicine ne suoi libri e nasce in monte gallimo //
e in monte siracto e a figura dappio e fio** similmente //
e a sette radici e in ongni suo ramo an glie facte //
a modo di spada ongni tempo a fiori e seme come//
fava E al male dela siche il sugo dato a bere il tisicho /
/ libera e rendiglj il colore perduto El doctore lafferma //
X victu buone alcorpo humano//

CARTA 69 v
Erba fiore di saccho çachario o triuola a molte vertu gli fiori fanne acqua distillata//
e questa acqua e buona a ongni [ma]cula d’occhio lieva la maglia e rischiara//
la lucie E a gotta arteticha La foglia data mangiare e a bere libera la gotta//
La sua radicina seccha e spolverizata sopra la piaga libera e reduce a san[i]ta//
E gli fiori freschi pestati agli occhi lieva lardore e a ongni riscaldamento d’occhio//
e l’albugine e reduce a sanita a molte vertu nascie in terreni alpesci montuosi//
e prati sabbionosi e luoghi freddi//

Autore: Sarah Dal bo’

Email: sar

SOLE SOTTO LO STESSO TETTO. IL MONASTERO DELLE POVERE ORFANELLE DI TORINO NEL SETTECENTO

Introduzione alla tesi di Laurea anno accademico 1999-2000, relatore Professor Luciano Allegra

Il monastero della Santissima Annunciata di Torino era un’istituzione privata le cui incerte origini risalgono con ogni probabilità alla seconda metà del Cinquecento e all’attivismo di pochi conservatori e conservatrici; fra di esse emerge la figura della nobildonna Antonia Montafia Langosca di Stroppiana, che fu “… non v’ha dubbio, una delle più zelanti e benemerite Conservatrici della Compagnia, e, se non ne fu la fondatrice, ne fu certo la ristoratrice ed insigne benefattrice…”: a lei infatti si deve l’acquisto della prima porzione di casa destinata a ospitare l’istituzione almeno fino alla fine del XIX secolo.

Il fine che ebbero i fondatori nello stabilire l’Ospizio delle Orfane fu di togliere principalmente le figlie già in quell’età prima prive di padre e di madre per morte immatura dai pericoli del mondo, educarle cristianamente e civilmente secondo la loro condizione e così abituarle ad adempiere le obbligazioni connesse allo Stato religioso o secolare; o rimanersene nell’ospizio per il corso della loro vita secondo che lor sarebbe piaciuto: a proporzione che crescevano i redditi dell’ospizio …


In queste poche righe sono raccolte le caratteristiche essenziali dell’istituzione. Il Monastero delle Povere Orfanelle era infatti un’istituzione totale per donne, in cui le orfane accolte vivevano recluse, con poche possibilità di relazioni col mondo esterno, fino all’eventuale matrimonio o, sempre più frequentemente nel corso del XVIII secolo, per tutta la vita – l’altra possibilità di uscita era la monacazione che, forse per problemi dotali, costituiva però un esito poco frequente.

L’oggetto privilegiato delle mie attenzioni sono state le donne, sia in quanto destinatarie di assistenza, sia in quanto benefattrici e amministratrici dell’istituzione. Proprio l’analisi del ruolo svolto dalle donne nel Consiglio Direttivo ha riservato le principali sorprese. In una società quale quella moderna, in cui la carità era l’unico ambito nel quale si riconosceva alle donne un ruolo sociale visibile, anche se in una posizione subalterna all’elemento maschile, trovare un Consiglio Direttivo costituito in netta prevalenza da donne con pieni poteri decisionali rappresenta una eccezione di grande interesse storico.
Nel condurre la mia ricerca mi sono servita essenzialmente di fonti di prima mano. Il materiale archivistico di base è costituito dai registri d’ingresso e dagli atti notarili di costituzione di dote, che ho utilizzato per conoscere la fisionomia demografica, sociale e economica delle orfanelle. Sono ricorsa ai conti consuntivi e ai testamenti per lo studio dei benefattori, mentre, per indagare sulle origini dell’istituto, ho utilizzato i cenni storici delineati nel Regolamento dell’Orfanotrofio femminile di Torino stampato nel 1892, integrati con un saggio manoscritto di Giorgio Antonio Gola. Dallo stesso Regolamento ho tratto la lista dei congregati, all’interno della quale ho individuato un campione che ho cercato di studiare in modo approfondito, servendomi delle preziose informazioni biografiche gentilmente offertemi da Sandra Cavallo e ponendo attenzione soprattutto ai legami individuali e parentali dei benefattori e ai loro rapporti con altre istituzioni assistenziali della città. La consultazione degli Ordinati della Congregazione risalenti al XVIII secolo mi ha consentito di effettuare ulteriori integrazioni su ciascuno degli argomenti trattati.

Soprattutto a partire dal ‘600 in Italia, come in gran parte dell’Europa, si verificò un consistente sviluppo delle istituzioni caritatevoli, in concomitanza con l’affermarsi di una nuova concezione del povero, non più degno di compassione, ma fonte di paure, fastidi, ripugnanza e visto come sovvertitore dell’ordine. E’ in questo contesto che le istituzioni tesero ad assumere un carattere segregativo e si svilupparono progetti di espulsione dalla città